“Quando”, il film di Veltroni è un viaggio nell’assenza con la speranza del futuro

“Devi dirlo tu se il mondo è migliorato o peggiorato in tutto questo tempo, perché per noi è complicato, noi lo abbiamo vissuto”, dice suor Giulia, una straordinaria Valeria Solarino, al protagonista Giovanni, ancora stordito dal lungo silenzio in cui è stato immerso per trentuno lunghissimi anni. Il film di Walter Veltroni, “Quando” – da giovedì 30 nei cinema – ruota attorno a questo interrogativo che attraversa tutta la storia: nel 1984 il mondo era migliore o peggiore di come è nel 2015?

Un coma lungo trentuno anni

Giovanni Piovasco, interpretato da un bravissimo Neri Marcorè, cerca faticosamente di riannodare i fili spezzati, di ritrovare il senso della propria vita che si è fermata il 13 giugno del 1984, quando l’asta di uno striscione lo ha colpito accidentalmente alla testa durante i funerali di Enrico Berlinguer in piazza San Giovanni. Uno stato di coma lunghissimo, poi improvvisamente il risveglio, quasi un miracolo. Il suo ritorno tra noi è un viaggio accidentato dentro un universo che è completamente cambiato e che solo la pazienza e la tenerezza di una suora riesce a rendere meno traumatico. Non c’è più il Pci, non c’è più quella comunità di donne e di uomini che animava le sezioni e si batteva per un mondo più giusto, Botteghe Oscure è diventato un semplice palazzo di Roma, uno dei tanti, la libreria Rinascita che era sotto la sede del partito si è trasformata in un supermercato, nemmeno “l’Unità” esiste più. E’ crollato tutto e per lui il crollo è improvviso, drammatico, quasi insostenibile.

Ma non è solo l’universo politico, per Giovanni molto importante, a cambiare. E’ cambiato anche il suo mondo privato, perché il tempo è passato e ha lasciato ferite e dolori e rimpianti. La sua ragazza di allora, anche lei una compagna, dopo averlo aspettato per qualche anno, si è sposata con un altro e custodisce un segreto che si svelerà solo alla fine. Il padre è morto di infarto. La madre, come avesse voluto seguire il figlio nel girone dell’oblio, si è perduta, colpita dall’Alzheimer. Anche lei non ricorda più nulla, non sa nemmeno chi sia quell’uomo con la barba, quasi cinquantenne, che le parla con dolcezza. L’incontro tra loro è, forse, la scena più commovente del film: è l’incontro tra due vuoti, tra due grandi sofferenze, tra due memorie interrotte.

C’era una volta il Partito comunista italiano

Quello di Veltroni è un film sull’assenza, su ciò che nel corso della vita abbiamo perduto, sulla storia grande che abbiamo vissuto, dissolta in maniera inverosimile. E’ accaduto e non ce lo saremmo mai aspettati. Non se lo sarebbe mai aspettato nemmeno Giovanni che quel grande patrimonio politico, umano, culturale che si chiamava Partito comunista italiano sarebbe svanito così velocemente insieme al nome e al simbolo, archiviati dopo due congressi. Noi l’abbiamo sentita quella mancanza, abbiamo percorso giorno dopo giorno il lento declino, lo abbiamo introiettato e nonostante questo lo abbiamo vissuto ugualmente con sofferenza e con un senso di vuoto. Giovanni ce lo mostra, con quello sguardo incredulo, in tutta la sua irruenza, senza la mediazione dei tempi lunghi. Un crollo improvviso che ci fa vedere, in modo impietoso, le rovine che restano.

Veltroni affronta questo grande dramma con tenerezza, con emozione. Il protagonista è il figlio dei nostri fallimenti, dei nostri errori. Un particolare però fa riflettere: nel mondo che Giovanni piano piano scopre e cerca di ricostruire c’è di tutto, dal crollo del muro di Berlino all’attacco alle Torri Gemelle, dalla rivolta di piazza Tian An Men e all’attentato di Capaci, dalla disperazione degli immigrati alla morte di Carlo Giuliani al G8 di Genova. Non c’è nulla invece di quello che è successo in Italia nella sinistra dopo la fine del Pci. Non c’è nulla della politica italiana. Nulla del Pd o dell’Ulivo, nulla dei tentativi di costruire altre storie. Persino il ritorno di Giovanni nella sua vecchia sezione per incontrare i compagni ha l’immagine della falce e martello che campeggia sulla porta di ingresso. C’è un vuoto, insomma. Un vuoto che pesa e che dovrebbe essere, al di là del film, una questione aperta per chi – dal regista ai molti dirigenti di primo piano presenti in sala durante l’anteprima al cinema Adriano di Roma – quella storia postcomunista l’ha scritta, diretta e interpretata da protagonista. Bisogna chiederselo: perché la storia è andata a finire così?

Sembra che il passato – un passato glorioso, nel bene e nel male – non abbia prodotto alcun presente, solo una pagina bianca su cui provare a scrivere una nuova storia. Per questo Giovanni si convince che bisogna ricostruire. Sente dentro di sé l’ansia di un futuro nel quale ritrovare i fili spezzati. E’ un sentimento nuovo, un misto di nostalgia e di speranza, che lui descrive con parole commoventi – che riecheggiano sia i versi della canzone “Qualcuno era comunista” di Giorgio Gaber e sia la passione delle riflessioni di Claudio Napoleoni – davanti alla commissione in un tardivo esame di maturità: cercare, cercare ancora, cercare sempre.