Quando dire “no”
farebbe bene
all’economia

Nel nostro “bel paese dove il sì suona”, sarebbe davvero corroborante per lo spirito civico se ricominciasse ad echeggiare un’altra “nota” più ruvida e però necessaria per incardinare in queste avvisaglie di post-pandemia un senso di rinnovamento autentico. Una “nota” di due lettere: no.

Da coniugare insieme ai tanti sì sburocratizzanti del recovery plan e delle sue missioni, dal matrimonio di sostenibilità (ambientale, umana) & digitalizzazione al ridisegno di un anchilosato sistema giudiziario dove una lentezza che sa di corporazione e labirinto falsa il concetto stesso di giustizia come atto del dare quello che è giusto secondo urgenza morale e diritto, del rendere “fatto” un dovere scritto nella Legge.

Democrazia, trasparenza e buon funzionamento

E la semplificazione amministrativa? Quanto ha davvero marciato la legge Bassanini del ’97? Poco, se è vero che nel Recovery Plan snellimento ed efficienza della macchina statale e non solo figurano in cima all’agenda.

Tutto auspicabile, con la coscienza ormai diffusa – finalmente – che democrazia viva, trasparenza e buon funzionamento di un moderno sistema complesso sono la strada migliore pure per l’economia, non solo per il professore che vuol veder riconosciuti i propri meriti, per l’imprenditore che chiede un minimo di equità e certezza, per il giovane che chiede alla scuola non cattivi maestri ma empatici facilitatori e fratelli maggiori sulla via del loro futuro e di una cittadinanza attiva.

Dovremmo convincerci che i diritti c’entrano con la produttività.

Che una democrazia sempre più – secondo Costituzione – pienamente attuata, toglie indebiti lacci e taglieggiamenti criminali all’economia e meglio la fa funzionare; e per converso che una economia solida, tecnologicamente avanzata e consapevole del bisogno di armonizzare redditività e beni primari (ambiente, salute, dignità) è il braccio destro della democrazia. Non riconoscere diritti ai figli di immigrati, alimentare la paura dei migranti o dimenticarsi del reinserimento sociale degli ex detenuti permette di vivere di rendita a politici dal fiato corto, ma sulla lunga distanza presenta alti costi sociali ed economici a tutti.

Ilva, troppi sì, pochi no

Foto di Gerd Altmann da Pixabay

Gli “ideali”, i valori sembrano inutili? Che vinca almeno la mera convenienza. Ad esempio, il dramma dell’ex Ilva di cosa ci parla se non di una democrazia “minorata”? Oggi quel nodo mai tagliato, concresciuto fra troppi “sì” (anche sindacali) e pochi “no” si fa creditore esigente, squadernando una sconfitta lastricata di lutti prossima a diventare fallimento economico in un comparto industriale strategico.

Nel Paese dove, ancora oggi, il lavoro appare qualche volta gentile concessione e si arruolano stagionali migranti a decine e decine di migliaia secondo le paghe da fame del neo-schiavismo, una tragedia civile covata dagli occhi benevoli di istituzioni locali e talvolta delle forze dell’ordine, la virtù del “no”, se mai un tempo è fiorita, si è spenta, nonostante ci sia una legge, la 199 del 2016, scritta apposta per punire le forme estreme di sfruttamento.

E qui non è giustizia lenta, ma giustizia assente, benché, a fatica, qualcosa si stia muovendo al Nord e al Sud.
I “no” hanno bisogno di sponde politiche e attivismo sociale, sono un terreno da coltivare e far fruttificare, pensiamo ai riders e a loro primo contratto collettivo, un passo timidissimo che non coinvolge tutti gli addetti del settore consegne cibo a domicilio.

I no straordinari, i no ordinari

no
Foto di Niek Verlaan da Pixabay

Se il “no” del sudafricano Jerry Masslo o del senegalese Mbaye Ndiaye, è eroico, come lo è quello dell’austriaco obiettore Franz Jägerstätter torturato e ucciso dai nazisti nel ’43, dei partigiani antifascisti d’ogni colore o, per stare all’oggi, dei ragazzi che sfidano le pallottole in Birmania o le dittature di varie tonalità, da Hong Kong alla Bielorussia fino alla casa madre Russia, della giornalista Federica Angeli che ha tenuto la schiena dritta contro il clan Spada di Ostia, ebbene ci sono anche dei “no” ordinari, normali, quotidiani, che aspettano solo sponde serie e garanzie per venir pronunciati.
Emanuele Rossi, operaio alla Funivia del Mottarone, alla domanda: “Non potevate dire di no quando vi chiedevano di bloccare i freni?”, ha risposto sintetizzando una tragedia che lo ha intimamente distrutto: “Secondo lei? Ho un mutuo, mia moglie non lavora, se parli ti danno un calcio nel sedere e finisci sotto i ponti. Noi prendevamo gli ordini e basta”.
Come la ventiduenne e madre di una bimba Luana D’Orazio, l’operaia intrappolata e orrendamente uccisa da un orditoio (forse senza protezioni) nella fabbrica tessile in cui lavorava a Prato. Il lavoro, in fabbrica, in cisterne, in cantieri ancora e proprio letteralmente divora. E siamo in Europa, in una culla dei diritti, in un’isola privilegiata. Quanto potrebbe valere un “no” europeo pronunciato all’unisono?

Ora possiamo ridisegnare la mappa dei diritti

In una vignetta di vent’anni fa, Vauro aveva raffigurato due edili in cima a una trave sospesa nel vuoto, guardavano in giù e uno diceva:” Flessibilità, flessibilità… Non mi pare che sia rimbalzato!”. L’iperliberismo omicida, finanziariamente opaco ed evasore appare adesso per ciò che è: un’ideologia di mercato logora e controproducente per l’uomo e la natura.
Siamo da qualche anno, con l’acceleratore della pandemia, in un controciclo sociale ed economico che richiama interventi pubblici e obbliga a passi concertati coi grandi capitali privati, abbiamo molti, molti soldi per provare a ridisegnare la mappa dei diritti e dei doveri. E applicarla. Dovuto pessimismo a parte, una stagione da ultima chiamata quasi esaltante, col nuovo che potrebbe avanzare non per amore ma per forza.