Quando Archie Shepp suona “Revolution” al Festival No Borders
Quando negli anni 60 Malcom X combatteva aspramente per l’emancipazione degli afroamericani, lui era lì. Quando ad Attica negli anni 70 la feroce polizia massacrò detenuti ed ostaggi, lui era lì. Quando Amiri Baraka -Leroy Jones componeva le prime forme di poetry di lotta politica, lui era lì.
La sua musica cresceva, urgente e feroce, poetica e radicale, insieme a tutti i movimenti paralleli che cercavano di affrancare i neri americani dall’oppressione dei bianchi.
La storia del jazz via sax
La sua storia è la storia di tutto questo, ed è segnata dal suono inconfondibile del suo sax, oltre che dalla sua voce roca e profonda, un oracolo che arrivava dall’anima profonda degli States più veri, ancestrali, arcaici. Del resto sua nonna, come lui racconta con innata semplicità di eloquio, viveva durante lo schiavismo. E quel marchio ha segnato la vita e la vicenda artistica di Archie Shepp.
Blues, swing, bop…
Un elegante signore nero ottantaduenne, che sale sul palco dell’Auditorium di Roma con il suo magnifico completo grigio e cappello dello stesso colore, accompagnato dai suoi musicisti premurosi nelle attenzioni e nella protezione del loro mèntore. Ma che, una volta appoggiato al suo sgabello ed imbracciato il suo strumento, dimostra quanto sia meritato il posto ineguagliabile riservatogli nella storia del jazz. Suonando blues, swing, bop, avant-garde e quant’altro, cantando con una venatura blues ineguagliabile per chiunque, raccontando le sue storie di “Revolution“, riproponendo l’amato Thelonious Monk, rievocando il sodalizio con John Coltrane.
Shepp ripercorre la sua storia di più di cinquant’anni di musica in modo esemplare. Mostra come si possa ancora essere un’icona della lotta di classe ed antirazziale pur in tempi che lo farebbero apparire anacronistico. Mostra come si possa virare verso una musica più godibile e pacificatrice senza tradire un minimo dei propri princípi. Coinvolge, guida, blandisce teneramente un pubblico che mostra a sua volta un crescendo di partecipazione fino alla convinta ovazione finale.
Un vero gigante del jazz più autentico, quello che suona in maniera profonda e convincente e che allo stesso tempo si conferma musica profondamente identificata nelle vicende più aspre della storia americana. Assoluto merito di questo Festival Jazz averlo riportato da queste parti, ancora ammirevole nella sua vecchiaia ed accompagnato da un sobrio, inappuntabile, espressivo trio di validi musicisti.
Altra bella serata al Festival No Borders di Roma. In attesa, nei prossimi giorni, di incontrare il pianoforte del grande Abdullah Ibrahim.
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