New York, il big battuto dalla ragazzina
Come accade spesso ormai, nessuno ha visto arrivare la valanga. Così succede che una ragazza di 28 anni si aggiudichi le primarie democratiche a New York, battendo un pezzo grosso del partito Joseph Crowley, considerato il possibile successore di Nancy Pelosi come leader alla Camera dei Rappresentanti. Alexandria Ocasio-Cortez non aveva ancora l’età per votare quando Crowley già era in gara per il suo primo duello nelle primarie del 2004. Oggi incassa una vittoria netta, senza sbavature, con il 57% dei voti e una campagna centrata sull’abolizione dell’Ice, l’agenzia che contrasta l’immigrazione, ma anche sulla sanità per tutti e un sistema sociale più giusto e inclusivo, promettendo di portare avanti il programma di Bernie Sanders di cui ha sostenuto attivamente la campagna presidenziale.
Nessuno – nemmeno lei – credeva che avrebbe portato a casa il risultato. Già attestarsi sopra al 30 per cento sembrava potesse essere un ottimo punto di partenza per future occasioni. E invece con un budget minimo, molti social e soprattutto un messaggio più radicale del suo competitor, a cominciare dal rifiuto dei finanziamenti di Wall street, Alexandria è riuscita a mobilitare l’elettorato democratico che si sente escluso dall’establishment del partito. E’ riuscita, lei di origine portoricana, nata nel Bronx e laureata a Boston, a farsi interprete del tessuto sociale del suo territorio, dove le minoranze costituiscono la maggioranza della popolazione.
Crowley – un’istituzione a New York, dove nei suoi party annuali i funzionari pubblici facevano il karaoke su canzoni che lui si divertiva a scegliere – è risultato essere disconnesso con la realtà sociale che avrebbe dovuto rappresentare. E anche troppo sicuro di se stesso e di come sarebbero andate le cose: come Hillary Clinton, dice ora qualcuno.
Ocasio-Cortez non ha avuto difficoltà a descriverlo come un politico quasi mai presente in città, con i figli a studiare a Washington e tanto sicuro di sé da non presentarsi nemmeno agli ultimi dibattiti tv con la sua sfidante, spedendo al posto suo una collaboratrice ispanica.
A voler cercare spiegazioni consolatorie, si potrebbe dire – come qualcuno fa nel partito democratico – che Crowley ha perso perché viene identificato con le istituzioni, quando è l’ora dei movimenti anti-establishment. Per Neal Kwatra, consulente politico di peso e capo del Metropolitan Public Strategies, il risultato di New York invece “ha meno a che fare con l’ideologia e più con la voglia di combattere”. La determinazione di Alexandria sul tema dell’immigrazione è sicuramente stata uno degli ingredienti della sua vittoria, alimentata anche dalle immagini dei bambini nelle gabbie al confine con il Messico. Di fronte alla barbarie, i richiami alla civiltà dei leader democratici sono sembrati troppo tiepidi da quanti vedono nelle politiche dell’amministrazione Trump una minaccia diretta.
L’esito delle primarie di New York avrà probabilmente ripercussioni nazionali, tanto più che Crowley era indicato come successore di Nancy Pelosi. Per i democratici è un problema non da poco, i nomi alternativi in circolazione alla luce della vittoria di Alexandria risultano fuori tema: maschi, anziani e bianchi, a voler restare alle etichette generiche (anche se a ben guardare anche Sanders è maschio, anziano e bianco ma ha un forte appeal sulle nuove generazioni, a riprova che il criterio della rottamazione non può avere una base anagrafica).
Al di là del dibattito sul possibile nuovo speaker, sono altri gli interrogativi cui deve rispondere il partito democratico. Un editoriale del New York Times sottolinea che la vittoria di Ocasio-Cortez è un richiamo alla necessità di vere primarie, specialmente negli Stati a tradizione democratica dove si dà per garantito l’esito del voto con la conseguenza di trovarsi davanti un elettorato letargico. Soprattutto quello che l’establishment democratico deve capire è che “la base liberal è motivata, va a votare, ed è un grande rischio politico ignorarla”. C’è una generazione nuova, fortemente liberal “che non vuole più aspettare”. Il punto è se i leader democratici riusciranno davvero a cogliere questa esigenza di cambiamento. “Questo – scrive il New York Times – potrà determinare se riprenderanno la Camera dei rappresentanti a novembre. Molti elettori sono pronti per qualcosa di diverso. I politici del Paese ne prendano nota”.
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