Presidenzialismo e autonomia: no all’idea di Paese della destra
Alla base di tutto c’è un progetto politico. Anzi, una visione di paese. Non c’è da stupirsi se, a meno di quattro mesi dall’insediamento del nuovo Governo, guidato dalla Presidente Giorgia Meloni, si pone al centro del dibattito politico un pacchetto di riforme istituzionali, nella forma e nella sostanza di impatto costituzionale. Non c’è da stupirsi perché è tutto scritto nel programma elettorale con cui il partito di maggioranza relativa, Fratelli d’Italia, e la coalizione di centrodestra si sono presentati alle urne. Un manifesto di intenti che racconta una storia politica che alligna negli ideali della destra repubblicana e che, già con l’exploit del berlusconismo, ha cercato di cambiare il volto delle istituzioni.
Una trasformazione in senso statunitense
Ecco allora che presidenzialismo, tema carissimo alle destre europee, e federalismo, o qualcosa che provi il più possibile ad emularlo sul piano politico (ma non costituzionale, dove è d’obbligo l’utilizzo di altri termini) diventano due facce della stessa medaglia. Attenzione, però: non sono due riforme che tendono a compensarsi, come spesso si scrive sui giornali. Non è necessaria la vulgata per la quale una formazione cercherebbe l’appoggio sul presidenzialismo, per una “democrazia decidente” a vocazione personalistica, in cambio di maggiori poteri alle realtà regionali. Le due traiettorie non devono per forza camminare a braccetto. Potenzialmente uno può vivere senza l’altro.
La medaglia, allora, è la rappresentazione del programma di governo. Un testo su cui i partiti di maggioranza hanno vinto le elezioni e per il quale, al netto dei tanti “start and stop” dettati dal realismo e dalla difficoltà del contesto politico in cui si lavora, promettono legittimamente di impegnarsi per cinque anni. Il programma disegna un’Italia che sembra quasi mirare ad una trasformazione in senso statunitense, dove si possa eleggere direttamente il Capo dello Stato con funzioni di leader del potere esecutivo, e dove i Presidenti delle Giunte Regionali possano mutare in Governatori. Quest’ultima, per altro, è una parola che già è in uso nel vocabolario comune per descrivere i capi degli esecutivi locali, dimenticando che sia una terminologia sbagliata. Una Regione non è e non può essere uno Stato. È una Regione, appunto, con Presidenti che tali sono, senza dovere essere definiti “Governatori”. E la Repubblica italiana non è uno stato federale avendo scelto, a suo tempo, una forma di stato diversa da quella del suo alleato oltreoceano.
Eppure, se la battaglia sul presidenzialismo nei fatti è già cominciata, con un posizionamento delle forze ben inquadrabile, anche il fronte regionale scotta abbondantemente. Infatti, la cosiddetta “autonomia differenziata” è una partita iniziata che vede la maggioranza discutere internamente e interloquire con le realtà regionali. L’opposizione, però, a parte qualche dichiarazione sporadica, tace. Ci si chiede, allora, se il silenzio possa essere interlocutorio, oppure se nasconda la volontà di preparare le barricate. In entrambi i casi, è una strategia sconsigliabile.
Che sul presidenzialismo si scontrino visioni diametralmente opposte tra maggioranza e opposizione è comprensibile. Sul tema non ci sono solo due idee di Repubblica a confronto, con relative forme di governo confliggenti, ma anche diverse analisi della società. Presumibilmente, dopo la fase parlamentare, toccherà a quella referendaria pronunciare la parola definitiva, pur senza dimenticare che un Parlamento eletto con il tasso di astensione pari al 36% crea dubbi di legittimazione politica su qualsiasi tema di impatto costituzionale.
I nodi dell’autonomia differenziata
In merito all’autonomia differenziata, invece, laddove non si utilizzi l’argomento per scopi elettorali (vedasi il referendum nel Veneto del 2017), centrodestra e centrosinistra possono dialogare. D’altra parte è la Costituzione, così come riformata dallo stesso centrosinistra nel 2001, a chiedere che l’articolo 116, comma 3, venga implementato. Pertanto, discutere su cosa debba essere l’autonomia differenziata e su come possa contribuire a rimuovere gli ostacoli “che impediscono il pieno sviluppo della persona umana” è materia prescritta dalla stessa Costituzione. Chiunque difenda la Carta, ha il compito di darne seguito. Il “come” resta il grande dibattito.
Se è pur vero che l’uguaglianza degli enti autonomi viene spesso interpretata alla stessa stregua dell’uguaglianza tra cittadini, è altrettanto vero che a situazioni diverse devono corrispondere soluzioni diverse. Dunque, l’autonomia differenziata in linea di principio può essere un modo per trasferire competenze amministrative agli enti locali, valorizzando ciò in cui differiscono in meglio, se questo può aiutare la tutela dei cittadini. Viceversa, su ciò in cui un’amministrazione difetta è giusto che venga chiamato in causa lo Stato centrale (che, tra l’altro, ha poteri sostituitivi come prevede l’articolo 120 Cost.).
Naturalmente, questa differenziazione prevede che non tutte le famose ventitré materie, su cui si discute il riparto delle competenze, debbano essere trattate alla stessa stregua. Dove si prevede la tutela dei diritti fondamentali, non devono esistere trattamenti diseguali in uno stato civile (cosa che, purtroppo, sembra non dipendere dall’autonomia). Ed ecco perché il dibattito si concentra sui famosi Livelli essenziali delle prestazioni (Lep), senza i quali non ci sarebbero le dovute garanzie di rispetto e difesa dei diritti essenziali. Inoltre, vigilare su un corretto equilibrio nel rapporto tra Centro e Periferia, può consentire che non si avvii quel processo di ius domicilii per italiani che tanto viene criticato nelle ultime settimane e che sarebbe deleterio per il sistema paese.
Ciononostante, il tema di per sé non può costituire un tabù né da una parte né dall’altra. L’autonomia senza un’adeguata valutazione politica delle vicende locali, regione per regione, che coinvolga Parlamento, Consigli regionali, realtà economico-finanziarie dei territori, rischia di essere solo una riforma ideologica e potenzialmente dannosa. Non un progetto per l’Italia, ma uno spot da rivendersi in campagna elettorale, controproducente sul lungo periodo. Al contrario, non proporre una soluzione (costituzionalmente orientata) in grado di sviluppare maggiori criteri di efficienza dei servizi, utilizzando le amministrazioni regionali, e favorendo una maggiore maturità delle istituzioni centrali nel concepire nuove forme più incisive di controllo, significa non volere affrontare un tema che esiste e che comporta una riflessione anche a sinistra.
Se a destra si delinea un’idea di paese, qual è il modello che si propone a sinistra? Il dibattito congressuale interno al “Nuovo Partito Democratico” potrebbe aiutare a dipanare la matassa. Senza dubbio, in Italia, bisogna fare i conti con una “questione regionale”. Come tutte le questioni che riguardano la vita delle persone, merita il giusto approfondimento, senza necessariamente sciogliersi in facili compromessi.
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