Meloni, non basta una spruzzata di rosa per stare con le donne

Lo scopo che molte di noi si sono date non è espugnare o spartire i vertici della politica maschile, ma cambiarne i modelli. Non chiedere di includerci nel patto ma voler cambiare il patto comporta immaginario, mentalità, obiettivi e prassi che potrebbero rivoluzionare l’intero quadro della democrazia, dei poteri e delle relazioni: molto più facile applicare la ricetta gattopardiana del cambiare tutto per non cambiare niente.

Non è la prima volta che formazioni di destra e di estrema destra utilizzano il gender washing: una tecnica di marketing che consente di ripulire la propria immagine con una spruzzata di rosa (che come si sa è il colore vezzoso adatto alle donne, potere rosa, vittoria rosa, politica in rosa, palazzo Chigi si tinge di rosa).

dal sito www.governo.it

Il pericolo del “femonazionalismo”

Svolta epocale? Contribuisce a rendere più sopportabile la dimensione dell’estraneità alle donne che si muovono nell’agone politico, le aiuta a prendere le distanze dai valori patriarcali che pure la loro stessa presenza smentisce?
L’ascesa al potere di molte protagoniste della politica da Margaret Thatcher in poi, come molte autrici hanno autorevolmente argomentato, rappresenta il risultato di tante battaglie emancipazioniste delle donne ma non si può definire una vittoria femminista: anzi, a seconda di come viene usata può addirittura dare adito a un regresso che deformi l’idea stessa di femminismo.

La ricercatrice Sara Farris ha chiamato il fenomeno femonazionalismo: l’uso di alcune rivendicazioni di matrice femminista per sostenere un mix di politiche reazionarie in salsa neoliberista.
Underdog? Le donne in posizione di leadership sono ancora delle outsider. Per questo si prestano bene a incarnare l’opposizione tra popolo ed élite: l’asse su cui s’incardinano tutti i populismi (ricordate Evita Peron?).

Quando tradizionalismo, liberismo e individualismo si saldano e una testimonial del “far da sé” proclama che tutto dipende dalla forza di volontà di ciascuna, si scarica sulle donne la responsabilità della loro invisibilità, senza alcuna analisi storica e strutturale delle disuguaglianze. Ai femminismi pare invece fondativa una riflessione sulla differenza tra dire “io” e dire “noi”, ad esempio.

Meloni sosteneva che finanziare la Casa delle donne di Roma – un “noi” per antonomasia – era “una oscenità del Pd coi soldi degli italiani”.
Messaggi precisi e diretti, etichette semplici: il nuovo lessico del ministero “per la famiglia, la natalità e le pari opportunità” dissotterra il tradizionale destino materno, appena corretto da una spruzzata di competenza e di merito. La nuova ministra è conosciuta per le sue battaglie contro fine vita, aborto, riconoscimento dei diritti alle coppie omosessuali, fecondazione medicalmente assistita; è stata portavoce del Family Day.

La presidente (che tuttavia si autodefinisce il presidente secondo la consunta metafora di “donna con le palle”) cura la patria, i confini, la cittadinanza mentre abbraccia la propria figlia: è madre del partito e della “nazione”, termine caro alle destre di ogni latitudine (Sarah Palin è la mamma grizzly star dei Tea Party negli Usa, Marine Le Pen è maman della Francia).
Nel 2016 Meloni si era candidata a sindaca come “mamma di Roma”. Nel 2018 fu la prima leader di partito a firmare il Manifesto per la Vita diffuso da ProVita & Famiglia e rivolto ai candidati alle elezioni europee.

La triade “dio, patria e famiglia” è un muro contro altre religioni, altri popoli, altre idee di famiglia. Anziché allargare i diritti salvaguarda i privilegi.
Quando si agita lo spauracchio del gender si esalta la famiglia tradizionale, dove i ruoli di maschio e di femmina si congelano al loro posto, altre figure sono devianze mal tollerate, altre famiglie sono condannate all’esecrazione.

 

Come demonizzare l’immigrato

Tota mulier in utero. La società non riesce ancora a vederci come persone e basta, senza contorno affettivo o familiare. Quando si mette al primo posto dell’agenda la denatalità (l’idea è di monetizzare con consistenti sgravi fiscali ogni nascita secondo la tradizione fascista) e lo si fa in salsa sovranista contrapponendola alla necessità di manodopera immigrata, si riesce con poco sforzo nel doppio scopo di idealizzare la famiglia e demonizzare le migrazioni. Il modello ungherese di incentivi alla famiglia è stato più volte indicato in passato come punto di riferimento da Meloni e Salvini.

Il focus sulla legge 194 diventa la sola prevenzione, benché a scuola sia impossibile parlare di educazione sessuale. L’accesso all’aborto è visto come un fallimento delle politiche che dovrebbero supportare il desiderio di maternità, dato per scontato in quanto espressione di una supposta propensione naturale delle donne. Da qui si può arrivare facilmente all’essenzialismo, che fa sì che il concetto di Donna con la maiuscola, anzi di “vera donna” venga definito in base alla biologia che ne definisca i tratti.

Quando si nomina la violenza maschile sulle donne lo si fa in chiave xenofoba, difendendo “le nostre donne”. Qual è l’apporto al processo generale di autodeterminazione e libertà femminile offerto dalla destra italiana che ieri si schierava contro il divorzio e contro l’abolizione del delitto d’onore?
Ora che i muri sono caduti, è caduta anche la scala dei valori?