Il precariato trionfa
il lavoro scompare:
appunti per le riforme
Viviamo tempi in cui la modernità del presunto progresso economico e sociale si misura con la proliferazione di modelli di sviluppo creati e diffusi con i tempi rapidi e i toni martellanti delle campagne pubblicitarie che conquistano consenso e costringono quel che rimane del popolo del lavoro, ormai ridotto a categorie isolate ed emarginate, a subire quasi senza reagire le novità dello sfruttamento globalizzato.
La formula magica dello sviluppo
Tramontate le stagioni del capitalismo dei “robber barons”, del fordismo, dell’industrializzazione di massa, tutto finito nelle inevitabili crisi licenziamenti ristrutturazioni, abbiamo assistito alla nascita, al successo, a volte alla scomparsa prematura, di formule magiche di sviluppo sempre declinate in inglese perché così va il mondo: new economy, web economy, green economy, sharing economy, digital economy, new media economy, gig economy…. Adesso va forte la circular economy, l’economia della rigenerazione e del rispetto ambientale come viene presentata da giornalisti e intellettuali sempre pronti a illustrare come un inevitabile progresso le ultime ricette per la massimizzazione dei profitti.
In questa evoluzione dei modelli del capitalismo resta centrale, costante il ruolo del lavoro precario, comunque lo si chiami, grande piaga sociale per chi cerca un reddito per vivere, enorme serbatoio di risorse e opportunità invece per imprese, multinazionali, sfruttatori di ogni categoria a tutte le latitudini. Compreso il nostro Paese, “Repubblica democratica fondata sul lavoro”.
Le stagioni della precarietà
Una prospettiva storica del lavoro precario è delineata nel volume Precari e precarie: una storia dell’Italia repubblicana (Carocci editore, pp.267, euro 24) scritto dalla storica del lavoro Eloisa Betti, docente all’Università di Bologna. Il libro ha il pregio di raccontare le stagioni della precarietà italiana attraverso i fatti economici e sociali, le politiche dei governi, la legislazione, le lotte e le metamorfosi dei lavoratori, le azioni sindacali e le riflessioni degli studiosi.
Il valore politico del libro sta nel fatto che fa piazza pulita della leggenda secondo la quale il lavoro precario sarebbe un fenomeno temporaneo, secondario, facilmente superabile dall’inevitabile successo dell’economia capitalista. La precarietà è, invece, congenita, risiede nel dna di questo sistema: c’era negli anni della Ricostruzione e del passaggio dall’agricoltura all’industria dell’Italia, c’era nella crisi degli Anni Settanta, si è sviluppata ed è cambiata enormemente negli ultimi trent’anni, giustificata dalla necessaria flessibilità da garantire alle imprese e anche da una filosofia da paninari che invitava a non innamorarsi del posto fisso, della sicurezza del salario, della garanzia dei diritti. Solo negli anni in cui i lavoratori e il movimento sindacale hanno combattuto e conquistato diritti e garanzie, il precariato ha fatto qualche passo indietro.
Occupati e precari

La definizione puntuale della precarietà nella società italiana è di Paolo Sylos Labini, risale al 1966 e va bene anche oggi. Scriveva: “E’ importante osservare che, particolarmente in una economia arretrata, non esiste una divisione netta fra occupazione e disoccupazione (…) La differenza essenziale non è tra occupazione e disoccupazione, ma fra un’occupazione ragionevolmente stabile e continua e un’occupazione instabile, ossia precaria e irregolare: questo concetto è più ampio e sembra più rilevante del concetto di sottoccupazione e di quello di disoccupazione nascosta”.
A questo pensiero si può aggiungere, in tempi più vicini a noi (2004), il legame tra internazionalizzazione dei processi produttivi, delocalizzazione e sfruttamento del lavoro, definito dal sociologo Luciano Gallino “la globalizzazione della precarietà”, fenomeno senza confini.
La crisi del 2008
Il mondo dell’occupazione “instabile, precaria, irregolare” è purtroppo cresciuto in Italia negli ultimi dieci anni, a partire dalla crisi globale del 2008. Gli effetti della recessione sono stati, scrive Eloisa Betti, di grande portata in Italia “con un aggravamento senza precedenti delle diseguaglianze e della povertà: nel 2015 oltre il 20% della popolazione residente in Italia versava in condizioni di indigenza. In quell’anno venne raggiunto il livello più elevato di povertà assoluta dal 2005 ben 4 milioni e 598.000 persone (il 7,6% dei residenti), mentre la povertà relativa interessò 8 milioni 307.000 persone (13,7% dei residenti). Diseguaglianze e povertà erano state alimentate, secondo molte analisi, da una crescita congiunta della disoccupazione, aumentata del 7% 2007 e 2014, e della precarizzazione a fronte di una riduzione della spesa sociale”.
Tra Fornero e Jobs Act
Ma le drammatiche conseguenze sociali della lunghissima crisi non sono pienamente compresi dalle classi dirigenti, dalla politica, dai governi. “La crisi economica globale ha accelerato i processi di trasformazione del diritto del lavoro nella direzione già suggerita dal Libro Verde della Commissione europea (2006) con un’accentuazione delle posizioni che ritenevano necessario l’adeguamento dei lavoratori alle esigenze dell’impresa”. E questo processo di smantellamento della legislazione del lavoro è stato il colpo finale: in Italia prima le politiche del ministro Elsa Fornero nel governo di emergenza di Mario Monti e poi l’azione di Matteo Renzi, già leader del Pd ora in fuga, con il Jobs Act e la distruzione dello Statuto dei lavoratori con la libertà di licenziamento concessa all’impresa che non aveva più l’obbligo del reintegro.
Presentata come la legge per superare la precarietà, il Jobs Act “non ridusse sostanzialmente il numero dei cosiddetti contratti atipici ma accrebbe ulteriormente la flessibilità in entrata consentendo di impiegare lavoratori con rapporti di carattere temporaneo senza bisogno di alcuna giustificazione causale (…) Secondo alcuni l’assenza di rimedi che dissuadessero la pratica dei licenziamenti immotivati rese la condizione dei lavoratori a tempo indeterminato non dissimile da quella dei lavoratori a termine, esponendo anche i primi a ricatti e condizioni di fragilità”.
Un nuovo statuto dei lavoratori
E da questa osservazione si può dedurre che oggi, dopo il passaggio al governo del ministro Fornero e di Matteo Renzi, le condizioni del lavoratore stabile e di quello precario sono ormai simili, nessuno può stare tranquillo.
Per chiudere questa riflessione sulla storia dell’Italia precaria bisognerebbe parlare delle condizioni in cui è ridotta la sinistra, della povertà culturale, di idee, di umiltà e del disastro combinato da quei partiti che tanti anni fa si ispiravano al lavoro, ed erano certo dignitosamente populisti perché si confrontavano con un popolo che aveva una propria identità fatta di storie, tradizioni, lotte, emancipazioni e sconfitte. Non ci sono parole per spiegare questa deriva. Rimane da segnalare solo una speranza, citata a conclusione del volume di Eloisa Betti: nel settembre 2016 sono state consegnate al Parlamento 1.150.000 firme a sostegno di una proposta di legge di iniziativa popolare per l’elaborazione di un nuovo Statuto di tutte le lavoratrici e di tutti i lavoratori, denominato “Carta dei diritti universali del lavoro”. Prima o poi qualcosa si muoverà.
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