Forbice sociale, gli errori a sinistra
hanno aperto le porte ai populismi
C’è sicuramente un nesso, anzi molti nessi fra il vistoso regresso delle democrazie e il modo in cui la sinistra ha interpretato il proprio ruolo da venticinque anni a questa parte. E in questo io sono sicuramente dalla parte di Fabrizio Barca, con cui ho collaborato, e che stimo specie per il suo lavoro attuale sulla disuguaglianza. Barca ha perfettamente ragione sul fatto che una società con minore eguaglianza conduce a minore civiltà politica, e che il miglior modo per precipitare ancora è disprezzare gli autori degli atti incivili senza deprecare gli ultimi 25-30 anni del centro-sinistra mondiale. Che ha smarrito il nesso fra eguaglianza e civiltà democratica perché bastava dare “le opportunità”.
La retorica delle opportunità
E invece no: meno eguaglianza significa meno opportunità. Tutti i dati comparativi mostrano una relazione fra più eguaglianza e più mobilità sociale. Senza l’una e l’altra nel loro stretto rapporto accadono cose nocive alla democrazia. Ad esempio, il sospetto per chi “sta in alto”, nel senso che minore e della crescente mobilità sociale significa che chi non è progredito rispetto ai propri genitori vede come illegittimo il successo altrui. Questo riguarda tutti, anche le classi medie e medio-alte, anzi forse specialmente loro, per cui vale a poco ripetere il mantra: “ma Trump non è stato votato soprattutto dai poveri” credendo di scagionare la sinistra. E così introducendo un qualche elemento di manipolazione: come se la sinistra non avesse comunque un problema enorme con i ceti popolari (ci torno sotto).
Ad ogni modo, anche rimanendo al centro destra: se le forze politiche borghesi subiscono l’effetto di agende nazional-populiste è un problema di tutti, originato dal fatto che nelle classi liberali borghesi e medie molti divengono rancorosi verso i ceti dirigenti “consolidati”, di centro-destra o centro-sinistra. E seguono leader meno “ragionevoli” che proclamano: “il gioco è truccato”.
Se la sinistra di derivazione socialista o comunista avesse memoria della propria funzione storica, saprebbe che se (per dirne una) il welfare sanitario e la scuola/università pubblica sono ben finanziate, saranno specialmente le classi medie ad evitare di indebitarsi per far studiare i figli o curarsi. Saranno cioè proprio i simboli del loro status, per gran parte delle classi medie, ad essere più accessibili. Non per questo voteranno tutti a sinistra, ma saranno politicamente più civili nella media, meno sensibili ai messaggi incendiari. Oltre a ciò, poi, più classi medie riceveranno mansioni gratificanti in quei settori del welfare, votando più facilmente la socialdemocrazia o altri partiti di sinistra. Fare studiare i figli non solo sarà meno caro, ma avrà anche degli sbocchi maggiori della mera “retorica delle opportunità”.
La relazione perduta con le classi lavoratrici
Ma veniamo più specificamente alla sinistra e alla sua relazione perduta (sebbene in modi non sempre egualmente drastici) con il proprio retroterra di classi lavoratrici e medie (non necessariamente povere, ovviamente). La questione (le cui cause storiche non ho spazio qui di puntualizzare) sta nell’avere dimenticato quanto ha praticato il socialismo democratico in decenni non lontanissimi: che il salario e il welfare sono fattori di crescita e innovazione quanto e più dei metodi neoliberali, in fondo basati sulla mera “apertura dei mercati”.
Questo per tre motivi: a) perché la crescita del salario può indurre alla innovazione molto più della autorizzazione a sfruttare e precarizzare il lavoro; b) perché questo aggiunge margini di domanda, giovando all’investimento di più lungo periodo; c) ciò funziona meglio se lo Stato a sua volta vi contribuisce, in modi che anche questi non c’è spazio di puntualizzare. Sarebbero le basi della riforma democratica e socialista dell’economia. Spesso dimenticate e comunque non più praticate.
Globalizzazione e bassi salari
Purtroppo sposare la mera “globalizzazione” ha significato invece credere che ogni crescita e investimento potesse venire dalla semplice apertura dei mercati. Si è creduto bastasse questo, e dalla finanza internazionale sarebbero piombati miliardi su ogni giovane con una buona idea (education, education, education!). Queste significavano anni addietro quei manifesti dei Ds con lo slogan melenso “Liberiamo le energie”.
Si è dimenticato, poi, che, se i diritti e i salari non crescono di più, all’economia globale mancano le domande interne, e tutto si riduce alla contesa di mercati di sbocco molto meno spaziosi del possibile, in cui si può entrare soltanto svalutando lavoro e salari. Il circolo vizioso si avvita. Su ciò non vale affatto l’obiezione per cui però la globalizzazione neoliberale ha tratto dalla povertà chi sa quanti miliardi di individui. Non vale: perché se i lavoratori americani ed europei avessero guadagnato di più e meglio con più certezze per il futuro questo avrebbe solo massimizzato esattamente questo processo. Al mondo per crescere meglio mancano tra le altre soprattutto quelle risorse di ulteriore domanda provenienti da mercati già potenzialmente ricchi e accoglienti. E va chiarito: maggiori diritti e maggiori salari non significano protezionismo, significano un’interdipendenza fra mercati più saldi e sicuri, anziché una concorrenza ossessiva fra sistemi economici al ribasso, e instabili politicamente proprio perché si negano diritti e salari.
Inoltre la storia dimostra che se tutto si limita a contendersi i mercati di sbocco, il mondo finisce molto male. No, il commercio internazionale non è necessariamente, alle condizioni attuali, la via della pace.
Una società elitaria
A proposito di protezionismo: se Trump “fa il protezionista”, ciò è perché vuole indicare un cambiamento (vero o presunto qui poco importa) a moltissimi americani, che (confusamente e sbagliando quanto si vuole nella scelta politica) sono scontenti del ruolo svolto dagli Usa in tutto questo: quello di motore indebitato di una domanda mondiale a cui altri paesi, in primis la Ue, contribuiscono infinitamente meno di quanto dovrebbero. Ciò anche perché troppi a sinistra credono che in fondo la “economia sociale di mercato” di questa Ue sia “quasi” come “il socialismo democratico”.
Invece no: il socialismo democratico postula che crescita e innovazione si ottengono sulla parità fra capitale e lavoro. Viceversa l’“economia sociale di mercato” è “sociale” solo nel senso che usa anche meccanismi sociali per deprimere il mercato interno e stimolare così una concorrenza che punta tutto sull’esportazione. Ciò significa, pur fissando dei minimi sostenibili, comunque erodere il welfare, e comunque la depressione di welfare e salari. Insomma, si mira a una gestibilità sociale (complessivamente al ribasso) ma non per colmare le differenze, no: per rendere più gestibile una “gerarchizzazione ordinata”, a partire dal lavoro subordinato al capitale.
Guardate: non è questione di classismo, è l’esperienza che vivono tutti, e che (come in modo diverso abbiamo detto sopra) fossilizza le posizioni, rende elitaria la società e la politica. E quindi discredita la democrazia.
Gli errori della sinistra europea
Fosse stata diversa la disponibilità e la capacità della sinistra europea a puntare sulla propria crescita interna, cioè sui propri salari, welfare e politiche di innovazione basate su questi motori di crescita, avremmo anticipato molti degli argomenti (o dei sentimenti) che hanno portato Trump a vincere nel 2016 o, nel 2020, a perdere crescendo immensamente fino a 74 milioni di voti. Oppure ne avremmo disinnescato le mosse se le avesse fatte ugualmente.
Ecco un’altra dimenticanza della attuale sinistra non più socialista: la strada per lo scambio eguale, cioè per la vera interdipendenza sostenibile viaggia con un pensiero realmente internazionalista. Ciò significa quanto segue: se i diritti di tutti i lavoratori e di tutte le classi medie crescono in modo regolato, magari dandosi il cambio, questo è un vantaggio per tutti. Ed è un modo di commerciare, crescere, innovare democratico anziché elitista e tecnocratico.
E qui arriviamo all’ultimo punto: se i ceti popolari e medi, le periferie nordiche come quelle tedesche, le borgate romane come le zone interne di tanti paesi, sono inclini ai richiami populisti, alla diffidenza per la democrazia e i suoi risultati, è ovviamente anche perché troppi sono sempre più diseducati alla democrazia e ai suoi migliori valori. Ma questo non si risolve con il disprezzo verso di loro.
Davvero è colpa dei social media?
Ciò che abbiamo visto accadere negli ultimi decenni è lo smontaggio dei mezzi con cui la politica incontrava le masse dei cittadini, a partire dal socialismo organizzato, nel caso italiano anche dal Pci. Ora, se grandi masse di cittadini e lavoratori vivono la esperienza di decrescente parità nel mercato del lavoro di ogni giorno, questo comporta anche una disillusione rispetto al senso di organizzarsi e militare. La politica, specie della sinistra ispirata o derivata dal socialismo, non può avere credibilità se smonta la capacità dei cittadini di essere paritariamente tali nella sfera in cui si determina il loro sostentamento a la loro esperienza di lavoro. Il primato della politica, specie di sinistra, è tale se i partiti hanno dentro di sé, o dietro di sé come elettori, cittadini non ricattabili da chi il lavoro lo compra o lo gestisce.
Partiti di sinistra e cittadini (specie le classi popolari) per essere incisivi ed egemoni devono reciprocamente donarsi forza nel confrontarsi con chi ha più forza di loro, oppure perdono senso gli uni per gli altri. Essendo questa perdita di senso abbondantemente avvenuta (perché teorizzata da molti come più moderna) moltissimo voto popolare e molte classi medie hanno perso rispetto verso la politica democratica.
Scisso questo rapporto, e perciò smantellati i partiti, i giornali, le radio che lo incarnavano, si sono ampliati spazi al “fai da te” nella percezione, rielaborazione, critica dell’esistente. È proprio questo che si nota negli ultimi decenni di indagini puntuali e comparative: prima un distacco fra molti ceti (del lavoro dipendente, ma non solo) e i partiti di sinistra. Poi con il tempo nuovi contenuti (spesso nazional-populisti) si sono insinuati in questo spazio. È, trovo, davvero superficiale dare la colpa ai “media sociali”, quando è evidente che essi sono soprattutto la veicolazione di opinioni proprie assieme ad altri che ne hanno di affini. Essi intensificano cioè le inclinazioni o le frequentazioni reali di tutti. Se nella vita reale si ignora come costruire il rapporto partecipato dei cittadini con le agenzie della cultura politica, se si pensa basti “il partito delle primarie”, allora, certo, i media sociali diventano insidiosi.
Sullo stesso argomento leggi Paolo Soldini: Ma i rivoltosi di Washington non sono i figli degli “errori della sinistra”
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