Polanski e l’affare Dreyfus alla Mostra
Verdetto delegittimato dal #metoo
Pensavo di iniziare queste cronache veneziane scrivendo di un film amabile e trascurabile, di quelli che vedendoli ti diverti e il giorno dopo sei già passato ad altro: “La vérité” del giapponese Hirokazu Koreeda, girato in Francia e interpretato da Catherine Deneuve e Juliette Binoche. È il film d’apertura di Venezia 76, scelta bizzarra visto che il film – di produzione francese, e con due delle più grandi dive d’Oltralpe – era stato rifiutato da Cannes, dove pure il regista ha vinto la Palma d’oro nel 2018.
Questa esclusione aveva indotto tutti gli addetti ai lavori al pessimismo, invece il film è in fondo gradevole, e la Deneuve è strepitosa nel ruolo… della Deneuve, ossia di una diva anziana ma ancora scalpitante che sta interpretando un film di fantascienza e ha appena pubblicato un’autobiografia piena di fandonie (da cui l’ammiccante titolo, “La vérité”).
Il film e il regista “ricercato”
Nel film la diva ha un altro nome e l’ancora meravigliosa Catherine ha giurato che non le somiglia per nulla, ma il gioco cinefilo è simpatico (anche se molto già visto) e il film va giù come un bicchiere di Pernod. Ma poi, apre bocca la presidente della giuria e a Venezia si parla solo di lui, di Roman Polanski. E chi siamo noi per parlare d’altro?
Polanski presenterà in concorso “J’accuse”, tratto da un bestseller di Robert Harris, un film che solo lui poteva fare: la storia dell’affare Dreyfus, e chi meglio di Polanski – ebreo sfuggito per miracolo prima al nazismo, poi allo stalinismo – può raccontare quella storia.
Ma Polanski, si sa, è anche l’uomo ufficialmente “ricercato” dalla giustizia americana per un reato sessuale di 43 anni fa, e dopo anni di oblìo (causati anche dalle ripetute dichiarazioni della “vittima”, Samantha Geimer, che ha ampiamente raccontato di essere stata consenziente all’epoca – per quanto minorenne –e di aver comunque perdonato il regista) l’affare Polanski è oggi ampiamente cavalcato dal #metoo. Pensate che l’Academy che assegna l’Oscar lo ha espulso, dopo avergli dato un premio (per “Il pianista”) e 4 candidature.
Niente applausi dalla presidente della giuria
Come forse sapete, la giuria di Venezia che dovrà giudicare anche “J’accuse” (in italiano si chiamerà “L’ufficiale e la spia”) è presieduta da Lucrecia Martel, regista argentina attivissima sul fronte del #metoo e dei diritti femminili. E all’apertura della Mostra, nella conferenza stampa della giuria, la Martel ha sganciato la bomba.
Queste le sue dichiarazioni scrupolosamente tradotte dal castigliano, ci teniamo perché molti siti e molti social le hanno tradotte in modo assai disinvolto. A precisa domanda su “Polanski cineasta vs. Polanski uomo”, ha detto: “Io non separo l’uomo dall’opera. Trovo anzi interessante come le opere d’arte rendano visibile l’uomo che le ha fatte. E credo possiate immaginare quanto la presenza di Polanski a Venezia, con le notizie sul suo passato, mi risulti molto scomoda. Però ho fatto una piccola indagine, molto difficile da fare, su internet, e consultando scrittori che si sono occupati di questo tema. Ho visto che la vittima di Polanski considera questo caso chiuso, non negando i fatti, ma dicendo che il signor Polanski ha fatto tutto ciò che la sua famiglia aveva chiesto. Questo è un processo che apparentemente Polanski ha compiuto, e io non posso mettermi al di sopra di tutte le questioni giudiziarie che ancora sono aperte. Però, posso essere solidale con la posizione della vittima, e per lei questa è una storia chiusa. Tengo a dire che per me non sarebbe facile, e se sarà possibile non lo farò, assistere alla proiezione di gala del signor Polanski perché io rappresento molte donne che stanno lottando in Argentina su questioni simili, e non vorrei dovermi alzare in piedi per applaudirlo. Però mi pare giusto che il film del signor Polanski sia in questo festival. perché è un dialogo che va approfondito, e quale luogo migliore di un festival per proseguire questo percorso?”.
Alcune pacate considerazioni.
1. La ricerca in internet sul caso è facilissima, basta digitare su google “Roman Polanski Samantha Geimer” per trovare 113.000 link.
2. Trovo molto curioso che la femminista Martel, favorevole alle quote di film ai festival (secondo le quali i festival sarebbero obbligati a mettere in concorso il 50% di film diretti da donne), nomini Polanski ma non si degni di dare un nome e un cognome alla “vittima”.
3. Chissà se l’argentina Martel, rappresentante di donne “che lottano” nel suo paese, ha visto “La morte e la fanciulla”, film che Polanski ha tratto nel ’94 da un dramma di Ariel Dorfman che parla proprio della dittatura nel suo paese?
Lucrecia Martel ha di fatto dichiarato di trovare “scomodo” uno dei film che come giurata dovrà giudicare. Se la Mostra volesse forzare la mano, dovrebbe escluderla dalla giuria. Se Polanski e i suoi produttori volessero cavalcare la polemica, potrebbero ritirare il film dal concorso.
Quote rosa e giurie
Non avverrà nulla di tutto ciò, vedrete. Ma la sensazione è che il direttore della Mostra Alberto Barbera si sia infilato in un ginepraio. Dopo aver più volte ribadito di essere contrario alle quote e aver rispedito ai mittenti le accuse di aver selezionato pochi film diretti da donne, ha invece riempito di donne le giurie e ha messo a capo della giuria principale una regista che si sta dimostrando inadeguata al compito.
Sarebbe fin troppo facile sottolineare come l’intera filmografia della Martel non valga una sequenza del cinema di un gigante come Polanski. Ma non è questo il problema.
Il problema interno a Venezia è che, di fatto, il verdetto è fin d’ora delegittimato. Il problema globale è che le giuste rivendicazioni del #metoo stanno creando un clima culturale fatto di sospetti, di pregiudizi, di “riesumazioni” di casi (veri e presunti) su cui o la giurisprudenza, o la morale, o entrambe hanno fatto chiarezza. Roman Polanski era colpevole di aver fatto sesso con una minorenne; Woody Allen è innocente rispetto all’accusa di aver molestato la figlia. Ma per molti entrambi sono dei mostri, in una notte del cinema in cui – per citare Hegel – tutte le vacche sono nere.
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