Pnrr, un fallimento che travolgerà le giovani generazioni
Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza e la bagarre che si è scatenata intorno alla sua implementazione sono la plastica dimostrazione della impreparazione e irresponsabilità della classe dirigente italiana a gestire la massa enorme di risorse pubbliche stanziate per la trasformazione strutturale del paese. In questo giudizio – che mi rendo conto essere apodittico, ma forse non troppo lontano dal vero – vengono ricompresi governi e responsabilità di diverse forze politiche e primi ministri.
Da piano di progetti a piano di spesa
In primo luogo la vicenda ha dimostrato che tutti hanno risposto alla logica del “prendi i soldi e scappa!”. Cioè l’obiettivo è stato quello di accaparrarsi il maggior numero di finanziamenti possibili a prescindere da ogni valutazione sulla effettiva capacità di progettare, selezionare i progetti esistenti e spendere i soldi ottenuti.
Ciò ha avuto il primo, pessimo, effetto di concepire il PNRR come un piano di spesa e non di progetti, capovolgendone così il senso vero. Il secondo effetto è stato quello di racimolare il maggior numero di progetti – spesso neppure allo stato di progettazione preliminare – adeguandoli alla meno peggio ai requisiti europei per farseli finanziare e farci un po’ di comunicazione social. Gli enti attuatori si sono per lo più disinteressati di verificare preventivamente se questi progetti fossero effettivamente realizzabili, nei tempi e con le modalità stabiliti dall’Unione Europea e compatibili con la normativa italiana vigente. Cose queste note fin dall’inizio.
A monte di questo colpevole ignavia, dovuta proprio all’inversione logica del Piano (appunto, “prima i soldi e poi staremo a vedere”), c’è stata la completa disattenzione verso le linee guida, le finalità e il significato che l’Unione Europea aveva posto alla base delle ingenti risorse messe a disposizione. Così la vicenda, ad esempio, dello stadio di Firenze, che non si trova certamente in un quartiere degradato (Campo di Marte) da riqualificare, condizione in cui questo tipo di interventi dovevano trovarsi per essere accolti. Sempre per questo motivo sono del tutto ignoti i dati relativi agli indicatori di impatto sulle priorità trasversali del Piano (di genere, generazionali, territoriali), che pure la normativa europea obbligatoriamente richiedeva.
Basti pensare che su oltre 48 mila affidamenti, circa il 70% prevede una deroga totale delle quote di assunzioni per giovani e donne. Per le donne, in particolare, la legge stabilisce che la quota possa non essere applicata se nel settore di riferimento il tasso di disoccupazione femminile è inferiore al 25%. Quindi non si assumono donne dove non ci sono. Ma sono dati ANAC, trovati sui giornali, perché quelli ufficiali non vengono forniti. Perché? O i dati non ci sono (la stessa Corte dei Conti nella sua terza relazione di pochi giorni fa lo evidenza), oppure la pubblica amministrazione ha difficoltà (leggi, imbarazzo) a renderli pubblici, come prevedeva l’art. 6 del DPCM del 15 settembre 2021.
Interesse pubblico, iniziativa privata
Allo stesso modo, sempre la Corte dei Conti mette in evidenza come una parte importante dei progetti sia indietro nella tabella di marcia. Progetti non ancora allo stadio esecutivo o comunque non cantierabili, stazioni appaltanti (soprattutto a livello locale) inadeguate a gestire progetti complessi, incapacità ad affrontare anche gli aspetti amministrativi dei progetti. Oggi anche le imprese si rendono conto di queste difficoltà e taluni arrivano a considerare il Piano irrealizzabile (v. Carlo Luzzato, Gruppo Pizzarotti, su la Stampa del 30 marzo).
Intanto ci sarebbe da riflettere sul fatto che questo è anche il risultato di qualche decennio dello slogan “meno Stato, più mercato”. Meno Stato significa soprattutto questo: incapacità tecnico-operativa della Pubblica Amministrazione di svolgere il proprio ruolo di programmazione, progettazione, indirizzo e controllo sulle opere proprie e di terzi che comunque incidono sul territorio, che è appunto un bene pubblico. Peccato che a brandire quello slogan per decenni siano stati spesso proprio gli imprenditori che pensavano che nel proprio interesse vi fosse una P.A. più leggera, meno occhiuta e invadente, che liberasse da “lacci e lacciuoli” la libera capacità d’impresa.
Ma viviamo in un contesto democratico in cui l’interesse pubblico deve essere prioritario e tutelato e l’iniziativa privata è sì libera, ma non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla salute, all’ambiente, alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana (art. 41 Cost.). Questo equilibrio fra libertà e limite non può che essere garantito dallo Stato attraverso gli atti concreti della Pubblica Amministrazione. È il caso del codice degli appalti, costruito appunto per arginare e subordinare l’impresa privata a dei beni pubblici indisponibili quali la legalità, la trasparenza, la tutela del paesaggio e dell’ambiente. Ma solo uno Stato autorevole (non autoritario), competente (cioè dotato di risorse umane qualificate e indipendenti dai poteri privati) ed efficiente (nella sua funzione di legislatore, controllore e sanzionatore) può svolgere questa funzione equilibratrice e di garanzia.
Una preoccupante scorciatoia
Quando questi presupposti non ci sono più, perché si sono volutamente indeboliti, allora è forte la tentazione di imboccare scorciatoie. Come è puntualmente avvenuto con il decreto PNRR tre che è entrato in vigore il 24 febbraio, introducendo modifiche profonde nella governance del Piano. Anche in questo caso ciò che ha guidato il legislatore erano l’urgenza e la “semplificazione”. Ne hanno fatto le spese la partecipazione dei cittadini e delle comunità locali, con l’abolizione del Tavolo di Partecipazione che, per quanto debole, era l’unico luogo in cui la società civile potesse partecipare a questo gigantesco Piano che avrebbe dovuto trasformare il paese.
Così come la trasparenza, con la mancata indicazione dei termini e delle scadenze per la pubblicazione dei dati sul PNRR. Tutto è andato verso l’accentramento dei poteri, il ricorso a poteri sostitutivi e l’abolizione delle procedure di analisi ambientali. Tutto questo viene considerato come inutili e fastidiose lungaggini e non come procedure democratiche e di tutela dei beni comuni. Ma la loro eliminazione è anche il via libera alla contrattazione con interessi privati che si confrontano con una Stato debole e indebolito e, dunque, soccombente. Questi interessi sono, sempre, quelli più conservativi, che pensano al qui ed ora, non ad innovare e adeguare le infrastrutture del paese ai grandi temi, indicati anche dalla Ue, che riguarderanno la società di domani e dunque le generazioni più giovani. La transizione ecologica, l’innovazione digitale, l’uguaglianza di genere: tutti temi che la classe politica che oggi governa il paese e gli interessi privati che essa rappresenta non riesce neppure a vedere e concepire. E, dunque, il PNRR sarà una grande occasione perduta, indipendentemente dai soldi che riusciremo a spendere, che affermerà e difenderà il passato e vecchio ordine dei pochi, rinunciando al futuro di tutti.
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