Perché nessuno
chiama l’Onu?

Ma perché ancora non ne discute operativamente nessuno? In teoria, dal 2016 al 2030 l’Onu ha una maggiore possibilità d’iniziativa sui flussi migratori in corso. Come è noto, il 27 settembre 2015 (esattamente due anni fa) è stata adottata dall’Assemblea Generale dell’Onu l’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile, con 17 obiettivi (broad goals, il 13° riguarda il clima) e 169 precisi indirizzi (specific targets), uno dei quali riguarda per la prima volta le migrazioni. All’interno del decimo obiettivo delle Nazioni Unite (Reduce inequality within and among countries), il settimo punto riguarda migrazioni che possano essere tendenzialmente sostenibili: tutti dovranno facilitare “ordinate, sicure, regolari e responsabili” migrazioni e mobilità delle persone, anche attraverso politiche migratorie pianificate e ben gestite. Proprio in questi giorni l’Alleanza italiana per lo sviluppo sostenibile (ASVIS) sta diffondendo un rapporto sullo stato di attuazione di tutti i goal e i target in Italia, delle migrazioni poco ancora si è parlato.

Riporto per esteso il riferimento alle migrazioni: 10.7 Facilitate orderly, safe, regular and responsible migration and mobility of people, including through the implementation of planned and well-managed migration policies. Non si parla di migrazioni in termini di sostenibilità, non si parla esplicitamente di lotta alle migrazioni forzate. È, comunque, un passaggio importante che riguarda tutte le migrazioni e tutti i migranti. Si potrebbe e dovrebbe riflettere su ognuno dei quattro aggettivi scelti, anche per verificare se si riferiscono a entrambe (migrazione e mobilità), in che modo vada diversificata la mobilità emigratoria dalla mobilità immigratoria, come tradurli in competenti politiche migratorie nazionali ed europee, aperte e sistematiche, non emergenziali. Tutti i quattro aggettivi sono riferiti anche alle condizioni di chi emigra, tuttavia nella percezione diffusa l’ordine, la sicurezza, la regolarità, la responsabilità vengono associati soprattutto alla comunità in cui si immigra.

Fra tutti i migranti vi sono pure coloro che fuggono. Molto sappiamo dei rifugiati politici, quelli che hanno lo status di Refugee. Di fronte all’ancor più imponente numero di rifugiati climatici (per ora senza “riconoscimento”, come ha denunciato anche l’Enciclica papale) e di fronte alla vastità del fenomeno migratorio umano, andrà chiarito che cosa significa avere il diritto di restare ed essere liberi di migrare. Prima o poi bisognerà esplicitare che la prima questione è rispettare il “diritto di restare” nel luogo dove si è nati e cresciuti, un diritto che viene prima della stessa “libertà di movimento e di migrazione” prevista dall’articolo 13 della Dichiarazione Universale. Sostenere gli Obiettivi del Millennio e gli impegni per lo sviluppo sostenibile, è un modo anche di criticare, avversare, limitare le migrazioni forzate, quegli stati e quei comportamenti umani che le determinano. Occorre individuare le misure specifiche, le politiche specifiche, gli aiuti specifici per intervenire alle origini delle migrazioni forzate o dopo che si sono verificate, sapendo che non esistono soluzioni eterne e universali.

Nell’accordo approvato alla ventunesima Conferenza delle Parti della Convenzione sui Cambiamenti climatici di Parigi 12 dicembre 2015 (oltre a un riferimento ai diritti dei migranti nel preambolo) risalta un riferimento ai delocalizzati, ancora breve ma finalmente esplicito. Al paragrafo cinquanta si legge che dovranno essere definiti approcci integrati che scongiurino, minimizzino e indirizzino lo spostamento di persone dovuto agli impatti del cambiamento climatico. Siamo ancora soltanto all’avvio di un gruppo di lavoro e a raccomandazioni, all’interno del cosiddetto Warsaw International Mechanism (capitolo dei “Loss and Damage” associati agli impatti del Climate Change, cominceranno a lavorare proprio nei primi mesi del 2016), meglio di niente.