Per vincere il “dopo” serve un soggetto che non c’è: la politica
Circola un luogo comune secondo il quale dopo l’emergenza andrà tutto bene e nulla più sarà come prima. Assegnare un effetto palingenetico alla catastrofe,per cui la riscoperta della socialità è ormai una cosa acquisita proprio grazie alle misure autoritative di distanziamento degli individui, obbedisce però ad un residuo di provvidenzialismo che non aiuta a comprendere le opportunità e i rischi che ogni giuntura critica presenta.
Esistono dimensioni geopolitiche (la competizione Usa-Cina anzitutto) che sono coinvolte nella pandemia. La sfida per la attribuzione di situazioni di vantaggio nella contesa (economica, non militare) è incerta quanto a sbocchi di medio periodo. E di sicuro gli equilibri maturati nella precedente fase di globalizzazione (tutti i sistemi economici orientati verso il primato delle esportazioni) subiranno degli aggiustamenti. Il quadro mondiale si curverà a seconda di quale dei due attori principali riuscirà a governare l’eccezione e a recuperare più rapidamente dell’altro il terreno perduto a seguito della sospensione delle normali pratiche del commercio e della produzione.
Rispetto a questa competizione macro, che non arresta la gittata della globalizzazione ma ne determina una diversa modalità di penetrazione nelle diverse aree, i paesi che occupano posizioni più periferiche nella divisione internazionale dell’economia-mondo devono assistere agli eventi come tocca a degli attori marginali destinati a un ruolo secondario. Con economie che hanno allontanato i loro antichi luoghi della produzione industriale, per svolgere il ruolo di paesi assemblatori di pezzi e consumatori di merci provenienti da altre aree del mondo, ogni miraggio “autarchico” sfuma per la assoluta dipendenza dal mercato internazionale. Persino la non reperibilità di un bene semplice come le mascherine antivirus provocano un assoluto senso di impotenza.
La soluzione inseguita dalla destra americana (protezionismo interno, muro come metafora dell’arroccamento identitario e opposizione ad ogni processo di ri-regolazione nel campo giuridico-ambientale coinvolto nel processo economico internazionale) sembra in affanno per la sottovalutazione politica dell’impatto della malattia e dei suoi elevati costi umani e sociali.Non basterà la sintonia con l’Inghilterra della brexit per consegnare all’America una capacità di influenza ritrovata nelle dinamiche della globalizzazione avviata nella stagione post virale.
Il vantaggio strategico, ottenuto con l’indebolimento del precario livello politico di integrazione raggiunto a livello europeo, si rivela importante più nella possibilità di mettere sotto scacco un potenziale attore continentale mai consolidato che non nel recupero di una effettiva ed esigibile potenza. Tra la fuga britannica e le tentazioni dispotiche dell’Ungheria (dal capitalismo di sorveglianza si passa esplicitamente a un sistema istituzionale di sorveglianza repressiva) proprio la dimensione europea è quella più esposta alle conseguenze dissolutive associabili ai nuovi equilibri mondiali in via di ristrutturazione.
La forza distruttiva dell’epidemia ha stravolto i folli pilastri del patto di stabilità e tuttavia il recupero di flessibilità rispetto ai numeri concessi dalle sentinelle del rigorismo assoluto, e la conquista di margini nella possibilità del ricorso al debito pubblico, confermano i rischi connessi all’asimmetria di potenza riscontrabile nella sostenibilità del debito tra le diverse economie nazionali. La carenza di una effettiva leadership politica, in grado di imporre una visione generale e quindi una parvenza di condivisione politica a una eterogenea aggregazione regionale, accentua per i paesi più esposti, per gli effetti più vistosi dell’arresto del loro sistema produttivo,i rischi di un immediato default economico.
Si scambia per tematica etica (dovere altruistico di aiutare i paesi in sofferenza) una questione che, oltre che politica, è invece di interesse strettamente economico: il fallimento del paese consumatore non crea vantaggi al paese produttore. Una battaglia per mutare i rapporti di forza regionali,con alleanze con altri paesi ribelli verso il Berlino Consensus, sembra avviarsi anche se il suo esito incerto non può cancellare per sistemi in affanno la necessità di coltivare rapporti economici e finanziari con altre aree della produzione mondiale.
Il ritorno di Stato, che l’emergenza sanitaria sollecita come misura indispensabile per la ripresa, non è di per sé una condizione sufficiente per una gestione democratica dei numerosi rischi sociali riconducibili a un collasso economico di carattere sistemico che per l’Italia era avviato già nei mesi precedenti alla comparsa del virus. I costi, gli scopi, gli obiettivi del ritorno alla crescita sono il terreno dello scontro politico. Chi paga il debito, quali soggetti devono accollarsi gli oneri della redistribuzione delle risorse scarse e destinate per intervenire nelle sacche di povertà, per imporre correttivi nella accentuata differenziazione territoriale, è una grande questione politica e di classe.
Più che rifugiarsi nella certezza che nulla sarà come prima, sarebbe meglio ricostruire coalizioni sociali, organizzazioni, culture critiche per affrontare battaglie difficili per la ridefinizione di strategie della cittadinanza. Sono percepibili dei rischi involutivi che minacciano democrazie già gracili per l’abbraccio mortale tra capitale e Stato che ha scandito le tappe dell’età neoliberista. La natura, con il virus, non produce nulla di costruttivo, per definire un nuovo compromesso occorre la politica. E proprio il soggetto è quello che manca.
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