Pd, ultima chiamata: basta investiture plebiscitarie e scontri interni di potere
Non sono pochi coloro che lamentano, nel Pd, una nefasta propensione a dividersi, o anche scindersi. “Ai congressi, vivaddio”, ha scritto, su queste pagine, Paolo Branca, “si discute e ci si divide sulle scelte. Senza che ogni divisione debba essere vissuta come una definitiva resa dei conti. Senza che tutto debba finire con una scissione”. E ricorda come “altrove le divisioni sono state anche più profonde (nel Labour per esempio, tra seguaci bĺairani e seguaci di Corbyn) ma non è stata messa in discussione la casa comune” (qui il link). Altri hanno anche ricordato che persino nel Pci convivevano proficuamente posizioni anche molto diverse tra loro.
Tutto giusto; e tuttavia occorre interrogarsi sulle ragioni di questo fenomeno: sul perché il Pd proietti sempre un’immagine di sé che, al di là delle scissioni (e bisogna ricordare non solo i due ex-segretari, ma anche quella – personale – del leader di uno dei partiti fondatori, Francesco Rutelli, subito dopo l’elezione di Bersani), è segnata dalla diffusa percezione di una profonda divaricazione di posizioni politiche, dall’assenza di un vero collante politico e ideale.
Divisioni politiche o scontri di potere?
Se si trattasse solo di conflitti su una base politica e programmatica, ci si potrebbe almeno consolare: saremmo di fronte pur sempre ad un benefico scontro di idee. Il guaio è che, nella realtà concreta del Pd, le divisioni sono molto spesso solo ed esclusivamente scontri di potere, la cui posta in giuoco è il controllo del partito, al centro e in periferia. E dunque, bisogna fare un’analisi quanto mai realistica e spietata (se si vuole che il Pd si salvi), senza immaginare un partito che non c’è, e guardare agli effettivi meccanismi della governance del partito.
Perché questa insana propensione a dividersi? Solo una perversa tendenza masochista? Non credo che la spiegazione possa essere ricondotta (solo) a quelli che un tempo si chiamavano “fattori soggettivi”: sono alcuni dati strutturali che possono spiegare il fenomeno.
Il primo è legato al modello di democrazia interna adottato dal Pd: le “primarie aperte” sono state una iattura, perché hanno destrutturato ogni confine organizzativo del partito e svalutato il ruolo della partecipazione degli iscritti. Non solo: la logica di investitura plebiscitaria del leader solo in apparenza (come i fatti dimostrano) ha davvero conferito più forza e legittimità al segretario. E la ragione la si trova anche nelle cronache di queste settimane: i candidati-segretario devono, ciascuno, acquisire (o contrattare) il sostegno delle varie filiere centrali e periferiche, per poter poi inserire, in una lista bloccata collegata, i nomi dei propri sostenitori candidati all’Assemblea Nazionale: la cui composizione è dunque letteralmente trainata dal voto ai candidati-segretario.
Primarie aperte, un modello plebiscitario
Ogni candidato deve così costruire una propria mini-coalizione interna, che poi inevitabilmente condiziona le scelte del segretario: e non deve stupire quanto affermato da Letta nella relazione all’Assemblea nazionale del 22 gennaio, quando grosso modo ha affermato: “auguro che non accada al nuovo segretario quanto accaduto a me, cioè passare quasi tutta la giornata ad affrontare problemi di equilibri e conflitti all’interno dei gruppi dirigenti”.
E poi ci sono altri aspetti da considerare. L’attuale modello di elezione diretta del segretario impedisce ogni tipica espressione dell’accountability democratica (il “render conto”) che è propria delle democrazie rappresentative: il “popolo delle primarie” è un corpo sovrano mutevole e indistinto, che cambia tra una primaria e l’altra. E questa rigidità produce una sostanziale vulnerabilità del leader eletto, come dimostra il turbinoso succedersi dei segretari.
Nel Pd non c’è nemmeno un modello propriamente presidenzialistico, perché non c’è quella divisione dei poteri che si esprime nel migliore esempio di presidenzialismo, quello degli Stati Uniti. Gli organismi dirigenti del Pd non sono dotati di una propria autonoma legittimazione democratica: “dipendono” dal voto ai leader. E dunque, quello del Pd, è un modello plebiscitario che poi si traduce (per il meccanismo sopra descritto) in una feudalizzazione del partito. Al comando rimangono le oligarchie, che contrattano costantemente con il segretario (fino a che questi, magari, sbotta, come fece Zingaretti).
Non c’è una nuova cultura politica
L’altro grande fattore che mina alla radice la coesione del Pd può essere espresso in questi termini: il Pd avrebbe dovuto costruire una nuova cultura politica condivisa, a partire dalle tradizioni politiche “fondatrici”, quella cattolico-democatica e quella socialista. Non è accaduto, anche perché di fatto ha prevalso un’altra linea di pensiero: quella espressa nella “carta” del 2008, secondo cui, citiamo, “proprio perché non si riconosce più in rigide ideologie di appartenenza, la società italiana ha bisogno di un nuovo quadro politico di riferimento. Nel Partito Democratico confluiscono grandi tradizioni, consapevoli della loro inadeguatezza, da sole, a costituire questo riferimento”. Dunque, le due grandi tradizioni, quella dei cattolici democratici e quella del movimento socialista e comunista italiani, erano giudicate oramai “inadeguate”, in via di esaurimento, nell’era dominata dalla “fine delle ideologie”. Premessa del tutto fallace, come i fatti hanno dimostrato, dovendo oggi fare i conti con una destra ben nutrita di ideologie (nazionalistiche e xenofobe) e una sinistra completamente disarmata.
Pd, partito post ideologico
Quando si dice che il Pd non ha avuto una sua “identità”, si dice esattamente questo: che, da un lato, non ha saputo o potuto essere un vero luogo di arricchimento reciproco di quelle tradizioni fondatrici; e dall’altro, che, per non essere schiacciato su una di queste tradizioni a spese dell’altra, ha finito per non essere nulla: un partito post-ideologico, appunto.
Ma un partito non si tiene insieme solo sui “programmi”, sulle “cose da fare”: ha bisogno di un quadro condiviso di principi, e non tanto di “valori astratti”, su cui è facile essere d’accordo, a parole. Ad esempio, un partito di sinistra non può non partire (come ricordò Macaluso, che non volle aderire al Pd) da un giudizio e da una critica del capitalismo contemporaneo. Ma questo quadro di premesse comuni è ben lungi dall’essere stato costruito. Anzi, ne siamo ben lontani, se guardiamo a quanto accaduto con il nuovo Manifesto dei valori che avrebbe dovuto segnare una “fase costituente”: con l’incredibile “non-soluzione” di un nuovo manifesto che però non sostituisce quello vecchio! E con molti che si sbracciano a dire che quello del 2008 è ancora pienamente attuale, valido, condivisibile… quando basterebbe una lettura imparziale per constatare come i due testi, su molti punti, sono chiaramente incompatibili.
E’ una situazione rabberciata alla bell’e meglio alla fine dell’ultima Assemblea nazionale, per evitare che si aprisse uno scontro lacerante. Ma è stato come mettere la polvere sotto il tappeto: le questioni sono destinate a riemergere, e prima o poi una scelta si imporrà, se non si vuole che il Pd si sciolga, non perché qualcuno lo decida, ma per pura consunzione.
Pluralismo, in un quadro di regole democratiche
E allora, per tornare all’inizio: è proprio impossibile la convivenza tra posizioni diverse? No di certo, se si trattasse di normali distinzioni all’interno di un quadro di principi davvero condiviso. Bisogna pur ricordare, ad esempio, che le differenze all’interno del Pci erano notevoli, ma pur sempre all’interno di un partito che si definiva “comunista”. E, ancora, tanto per dare un esempio, e citare ancora il Labour Party, un punto del suo Rule Book, l’analogo di una Carta e di uno Statuto, recita semplicemente, nella Clause IV (“Aims and Values”):
«Il Labour Party è un partito socialista democratico. Esso crede che, grazie alla forza del nostro comune sforzo, noi possiamo ottenere insieme molto più di quanto si possa ottenere da soli, in modo da creare, per ciascuno di noi, le condizioni per la realizzazione delle nostre vere potenzialità e, per tutti noi, una comunità in cui potere, ricchezza e opportunità siano nelle mani dei molti, e non dei pochi” (nostra traduzione).
Non si ripeta il solito copione
Potrebbe mai il Pd permettersi di scrivere una cosa del genere?
Ma poi, oltre a ciò, la coesistenza sarebbe possibile se ci fosse un quadro di regole democratiche interne che favoriscano la formazione di diverse aree politico-culturali, un vero pluralismo di culture politiche democratiche, vecchie e nuove, e non di correnti funzionali solo al controllo del partito in funzione della conquista delle cariche pubbliche: ciò che ha fatto del Pd “un partito degli eletti”, o degli “aspiranti-eletti”.
Le proposte ci sarebbero, e i candidati sono ancora in tempo a dire se e come intendono cambiare il modello di partito: abolizione delle primarie aperte, elezione degli organismi dirigenti “dal basso” e non “dall’alto”, procedure interne di democrazia e di partecipazione nella costruzione delle scelte e dei programmi; e molto altro. Ma il rischio è che anche questo congresso si svolga secondo il solito copione: e che non si cambi nulla, perché prevalgono coloro che non hanno alcuna convenienza a cambiare quello regole che consentono il controllo del partito e la rendita di posizione che comunque questo assicura. Una trappola, un circolo vizioso, che andrebbe spezzato: per il Pd, questa, è l’ultima chiamata.
“Pd, un partito da rifare? Le ragioni di una crisi”
di Antonio Floridia, Castelvecchi, 2023, 17.50 euro.
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