Partigiana sempre.
E comunista. Ci lascia
Rossana Rossanda
Sì, un’intellettuale. Sì, una politica radicale e coraggiosa. Sì, una femminista. Sì, una scrittrice. Sì, un’intelligenza folgorante. Sì, una donna coltissima. Sì, una dei fondatori del manifesto. Nessuna di queste parole però descrive davvero Rossana Rossanda, che ci ha lasciato ieri a 96 anni. Partigiana, forse. Sì, partigiana. La partigiana Miranda durante la resistenza, ma poi partigiana sempre, una combattente. “Miranda, che nome cretino. Ma non me ne importava e non vedevo che servisse granché, porto in viso un segno di riconoscimento, rischio e semplificazione”, ha scritto in “La ragazza del secolo scorso”, libro straordinario.
Nella Resistenza, quando il tempo si fa lunghissimo
Della Resistenza ha scritto la sua verità: una grande paura, intanto. Poi quel mettersi uno nelle mani dell’altro: ognuno rischiava l’impiccagione, anche se si portavano solo carte o medicine. Per due o tre anni, scriveva, abbiamo vissuto senza informazioni certe, e il tempo diventava lunghissimo e senza un visibile orizzonte. Un tempo grigio in cui c’era “un fare preciso e un pensarsi caotico”.
Poi, dopo la fine della guerra, durante la guerra fredda e ancora l’autunno caldo, è rimasta partigiana. Affidandosi ai compagni, cercando informazioni certe, e ancora l’orizzonte non era visibile se non per miraggi. Quel che era rimasto uguale era la necessità di analizzare, capire, cercare una strada ancora non scritta. Poche le certezze, ad esempio: “non c’è una guerra pulita”.
La sconfitta della “tendenza di sinistra” nel Pci
Il Pci, il mondo accademico, il lavoro alla Hoepli, la scoperta delle fabbriche. Le grandi fabbriche milanesi. E poi il lavoro sempre più pressante nel Pci, da rivoluzionaria professionale. Scelta rivendicata con orgoglio: il 900 “è stato il primo secolo nel quale il popolo ha preso la parola da per tutto. E dove l’ha presa, l’ha presa sostenuto dalla sinistra”.
Anche qui, però, tra i dubbi e l’impotenza, “illusioni su un domani radioso non ricordo, infilavamo una sconfitta dopo l’altra”. Tra le altre sconfitte, negli anni ’60, il tentativo interno di una “tendenza di sinistra” che avrebbe potuto radicalizzare il Pci: Rossanda, Aldo Natoli, Luigi Pintor, Luciana Castellina, un gruppo di sindacalisti comunisti. Stroncato al congresso del 1966, ma quello era il primo nucleo del gruppo che poi fondò il manifesto. Poi ci fu la battaglia contro lo stalinismo, e quell’articolo della rivista il manifesto, “Praga è sola“, che diede l’avvio alla radiazione del Pci per Rossana e i suoi compagni.
Via Tomacelli, il manifesto
Già, il manifesto. Quando l’ho conosciuta Rossana era una bella donna con i capelli già candidi, elegante, dritta come un fuso. La sua stanza all’ultimo piano di via Tomacelli – pavimenti di marmo e parquet scrostato, le mura gialle di nicotina e qualche terrazzo con vista sulla cupola del san Carlo – era una furia di libri con l’unico privilegio di una vecchia poltrona di velluto per gli ospiti. Privilegio da direttore in un luogo in cui la gerarchia era quasi assente.
In redazione era madre di tutti, ma non era materna, non con me almeno: avevamo rapporti asciutti, ma sempre sinceri. Quando non sono stata d’accordo su qualcosa gliel’ho detto, e ne abbiamo discusso. Né con lei ho avuto conflitti. Anzi.
Non era materna ma quando ho avuto bisogno di lei – stavo scrivendo con Peter Kammerer un testo su Aldo Natoli, lei era già ultranovantenne – ci ha accolto con grande generosità nella sua casa di Parigi prima, e poi in quella di Roma, tra i suoi fiori e gli amatissimi gatti. Aiutandoci con la sua memoria a ricostruire il profilo di un comunista anomalo, ma parlando anche della vita condivisa in redazione. Un tempo anche per lei prezioso, su cui stava scrivendo un libro che ancora stiamo aspettando.
Il comunismo è una storia collettiva
Del nostro libro non le è piaciuto il titolo, certamente: “Aldo Natoli. Un comunista senza partito”. Per lei un comunista senza partito era impensabile, “il comunismo è una storia collettiva. Un difetto evidente del manifesto è che non fummo capaci di reggere la nostra posizione. Se sei comunista devi tentare di cambiare la società, se non la cambi, e non sei represso, non hai fatto quel che ti aveva mosso. Io non ho infatti un bilancio positivo della mia vita”. Con se stessa a volte era ingenerosa. E spietata a volte, quando parlava del suo corpo piegato dalla vecchiaia o dalla malattia, che pure ha portato con estrema dignità e signorilità. Come se non bisognasse essere compiacenti con la propria privata sofferenza.
Per salutarla Luciana Castellina – compagna e amica di sempre – sta organizzando con altri compagni un incontro pubblico, mercoledì o giovedì, forse.
L’ultima incomprensione
Ma il manifesto, che ha fondato e che ora la celebra, invece è stato ingeneroso con lei. La cesura del 2012, la nuova società dopo il fallimento e i licenziamenti, la constatazione secca: “Prendo atto della indisponibilità al dialogo della direzione e della redazione. Smetto di collaborare”. Poi, certo, il tempo passa e la collaborazione è ripresa, ma parziale. Quando Rossana ha proposto alla direttrice Norma Rangeri una pagina settimanale o un inserto, le è stato risposto: scrivi quello che vuoi, pubblichiamo senza discussioni; ma non in un giorno dedicato, e certo non in pagine autogestite. Difficile non pensare che Rossana l’abbia presa come segno di diffidenza.
Oggi Rangeri dice, ricordando fratture e incomprensioni: “ci sarà modo e tempo per approfondire e raccontare”. Non è così. A meno di non voler raccontare solo la propria verità, il tempo di fare i conti con Rossana, con quel conflitto, con le occasioni mancate, è finito, Rossana non c’è più. “C’è qualcosa – ha scritto – di più banale e straziante che accorgersi delle cose gettate, dei gesti non fatti?”.
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