Parigi, il fuoco
e i vecchi fantasmi

Non è di Parigi, non conosce la città, chi non ne ha mai incontrato i fantasmi. Vestirsi di grigio, essere tutt’uno con l’ombra indecisa e vaga degli angoli ciechi, infilarsi nella folla taciturna che emerge, che trasuda, alle stesse ore, dai metrò, dalle stazioni, dai cinema, dalle chiese, farsi fratello silenzioso e lontano di un viandante isolato, di chi sogna in ombrosa solitudine, dell’illuminato, del mendicante, perfino dell’ubriaco: per esserne capaci è necessario un apprendistato lungo e difficile, una conoscenza delle persone e dei luoghi che si raggiunge solo in anni di paziente osservazione.

Il vero carattere di una città (e a maggior ragione di quel conglomerato di una sessantina di villaggi dai quali è composta Parigi) si manifesta soprattutto nelle epoche tormentate.

***

Al Vieux Chêne avvenivano risse sanguinose tra delinquenti della peggior risma. Luogo ora di rifugio, ora di cospirazione, ora di delitti. Io contavo di dedicarmi lì a silenziose evocazioni, pipa in bocca, dando la stura ai ricordi. C’erano come sempre i vagabondi della zona, i barboni, ma muti, ansiosi, attenti. Osservavano un tipo magro, secco, sporco da dar la nausea, che fissava, gomiti sul tavolo e chino in avanti, gli occhi spalancati e cerchiati fino alla barba, una candela appena accesa, dritta a poca distanza dal suo viso. I minuti scorrevano come il vino di una botte.

Gli sguardi dei vagabondi di spostavano dalla candela all’uomo, dall’uomo alla candela. Passò così un lungo, lunghissimo istante. Quando la fiamma ebbe consumato per due terzi il percorso, si allungò crepitando, illividì e vacillo, ebbra come l’alba di una brutta giornata presa in fallo. Seppi allora chi era quell’uomo. Un tempo lo conoscevo.

Dopo la fine dell’altra guerra avevo trascorso parte della mia infanzia a E…, una borgata dell’Eure-et-Loir. Lì avevo compagni di gioco che si estasiavano per i fatti, le gesta e le imprese dei “grandi”, cioè di ragazzini con tre o quattro anni di più. Il più vanitoso, spaccone, fanfarone di loro si chiamava Honoré. Lo detestavamo, almeno quanto ammiravano suo padre “Maître Thibaudat”, come lo chiamavano. Quel brav’uomo (me lo vedo ancora con il basco blu in capo, i baffoni da antico Gallo, il volto che ne rispecchiava la forza fisica) di mestiere riparava le macchine agricole. Era anche capitano dei pompieri locali, una carica non da poco. Ogni domenica mattina radunava per le esercitazioni i suoi sottoposti bardati di tutto punto e con tanto d’elmo. Li disponeva in file serrate davanti al municipio e comandava le manovre con una voce stentorea.

Il resto l’avevo saputo più tardi.

C’era poi un’altra cosa. Maître Thibaudat era un marcou. Aveva cioè appreso dai suoi antenati, che se l’erano trasmesso di padre in figlio, il segreto per dominare il fuoco.

Possedeva una scienza che lo rendeva capace di avvertire l’inizio di un incendio da un covone di fieno, di isolare un pagliaio in fiamme, conosceva le geniali strategie per circoscrivere un fuoco nella foresta. Soprattutto sapeva guarire. Le scottature più leggere sparivano quasi subito. I casi più gravi finivano all’ospedale, lì imponeva le mani sul paziente malridotto, che urlava e rischiava l’asfissia. Intanto recitava a mezza voce formule note a lui solo. Il dolore spariva. La carne e la pelle si riformavano a una velocità che lasciava stupefatti molti medici. Non sono pochi, da Maintenon a Chartres, fino a Le Mans, quelli che si ricordano ancora di lui.

Venne il giorno in cui Mastro Thibaudat si sentì debole e temette di non avere più le energie vitali sufficienti per continuare a esercitare il proprio ufficio. Honoré, intanto, si era fatto uomo. Dopo che ebbe formalmente promesso di tenere la bocca chiusa, fu iniziato al segreto di famiglia e divenne a sua volta un marcou.

Il giovanotto si faceva sempre più spavaldo. Potendo sfoggiare una certa abbondanza di denaro, brillava facilmente nei balli di campagna, soprattutto in un’epoca in cui i giovani campagnoli, poco soddisfatti delle professioniste che offrono nei bordelli, s’intortano allegramente le servette. “Di’, Honoré, che t’ha detto allora tuo padre? Che ci hai da recitare per togliere il caldo? Una preghiera o una bella magia? Me lo dici, eh, Honorè?”.

Più di una volta, dimenticando il giuramento, Honoré aveva parlato. Aveva già esercitato il potere trasmessogli su qualche ferita di poco conto. I pazienti avevano provato sollievo, anche se non così rapidamente come quando era il padre a intervenire. Ma bisognava avere pazienza, alla lunga il giovanotto si sarebbe fatto esperienza…

***

La cappelleria di Rambouillet prosperava. Nel laboratorio di modisteria due ragazze della regione di E… lavoravano una accanto all’altra. Una si vantava di avere conosciuto (e apprezzato) le attrattive del bell’Honoré. La vicina, punta sul vivo, pretendeva di avere altrettante informazioni in materia. Esaurite le ingiurie, per chiudersi la bocca a vicenda, si buttarono in faccia le frasi da non dire, quelle imprudentemente rivelate da Honoré!. Le sillabe liberate volteggiarono liberamente per tutta la città…

***

Il piccino caduto nel caminetto in fiamme fu portato da Honoré, che impose le mani e si mise a mormorare. Nel giro di un quarto d’ora il bambino era morto. Allora le chiacchiere presero corpo, la gente prese forconi, fruste e perfino fucili. Il marcou era diventato un mahalou, uno spergiuro, traditore del suo patto, traditore di tutti! Fu necessaria l’energica protezione dei gendarmi per permettere a Honoré di inforcare la bicicletta e aspettare, moto lontano da lì, alla fermata di Gazeran, il treno per Parigi. Papà morì poco dopo, di dolore, si dice. Honoré, bandito per sempre dalla contea, partecipò a un colpo finito male. Il suo servizio militare lo fece in un reparto di punizione dei Battaglioni d’Africa.

***

Lo stoppino della candela fumava ancora, per distrazione, stordimento, forse. I vagabondi presero a parlare tra loro, sospettandosi a vicenda di essere il compare che aveva soffiato sulla candela senza farsi accorgere. L’uomo in nero sembrava insieme prostrato e sollevato. Non so perché mi comportai in un modo così crudele.

“Honoré Thibaudat ?”.

Le rughe del suo volto si fecero ancor più scavate. Con grande fatica sussurrò: “Lei… che cosa vuole?”.

“Ma niente. Sei tu il figlio del pompiere guaritore di E…? Una volta ti conoscevo, vieni a bere un bicchiere”.

“Prende solo la gassosa”, disse il padrone.

Honoré sembrava soffocare. Fece: “Sì, sì… con molto ghiaccio”. Si riempì tre volte il bicchiere, tre grandi sorsate, e la bottiglia era vuota. Mi guardò con gli occhi di un cane bastonato.

“Così, lei conosce la storia?”.

***

Mancavano solo venti minuti al coprifuoco*. Honoré e io risalivamo la Mouffe**. Indicò la finestra di uno scantinato: “Io dormo lì, in cantina. Fa più freddo. Da allora, soprattutto dopo l’Africa, io brucio. Brucio qui”. Mise una mano fremente sulla laringe. “Non c’è niente da fare. Per calmare i bruciore le ho provate tutte, anche le punture. Dopo mi riprendo ed è ancor peggio. Certe volte spengo anche la brace. Ma finisco stremato. Sono un vecchio oramai… Che cosa posso fare? Che cosa?”.

Lasciai solo nella notte il penitente del segreto tradito, che singhiozzava appoggiato a un cantone.

(Jacques Yonnet, “Le vie incantate di Parigi. Cronaca intima di una città”, 1954)

* Yonnet racconta un incontro avvenuto durate l’occupazione nazista. **rue Mouffetard, nel V arrondissement.