Afghanistan, sarà peggio. Tra tante guerre orribili
alcune sono giuste

Essendo l’Afghanistan uno degli ultimi Paesi al mondo dove la storia è per gran pare intrigo, non sarei affatto sorpreso nello scoprire che al subitaneo crollo dell’esercito afghano abbiano contribuito grandemente due fattori esterni: l’imponente rete spionistica iraniana, fortissima tra gli Hazara e in generale tra i persiano-parlanti, il 16-20% della popolazione (Teheran in sostanza avrebbe consigliato di non opporsi ai Taliban, benchè nemici storici, così che lo smacco americano risultasse clamoroso); e la tradizionale compravendita di comandanti, ingaggiati dai Taliban con valigie straripanti di dollari offerti da generosi finanziatori stranieri, cui premeva tanto ridicolizzare gli Stati Uniti quanto garantirsi buoni rapporti col futuro emirato.

Abbiamo perso dopo avere vinto

In attesa di saperne di più dovremmo intanto affrontare una questione di principio: forse il problema che l’Afghanistan ci consegna non risiede nel fatto che laggiù abbiamo combattuto una guerra, la tesi del giornalismo italiano al gran completo, ma che dopo averla vinta l’abbiamo persa malamente – per stupidità, per arroganza, per inettitudine militare, perché nella versione americana l’interventismo umanitario è velleitario e insincero. Forse il problema non è che la guerra è orribile, signora mia: questo già lo sapevamo. Ma tra tante guerre tutte orribili alcune sono giuste, sacrosante, necessarie: ragione per la quale alcuni italiani (non molti all’inizio) combatterono la guerra di Liberazione. Nessuno osa dire che avrebbero fatto meglio a rassegnarsi serenamente alla tirannide e allo sterminio: ma adesso preferiamo dimenticare che vent’anni fa la grandissima maggioranza degli afghani considerarono un dono del Cielo i bombardieri americani che li liberarono dei Taliban. Quella guerra non esaudiva le condizioni minime della guerra ‘giusta’: ma giustissima, sacrosanta, necessaria apparve agli esasperati sudditi dell’emiro Omar.

Forse il problema è che la pace è un valore assoluto per le società satolle e sicure come la nostra. Ma dove ‘pace’ vuol dire persecuzione, massacro, tortura, deprivazione della libertà e di un futuro, la parte della popolazione che subisce vedrà gli orrori e i rischi di un conflitto armato come un male minore. E spererà – come a suo tempo i Musulmani di Bosnia, come i siriani vittime di Assad – che dall’esterno arrivino non cerotti ma armi, non predicozzi contro la guerra ma un aiuto militare. ‘Voi gente perbene che pace cercate’ potete ripetervi all’infinito che non esistono guerre giuste, che quando si uccide tutti sono colpevoli e nessuno è innocente. Ma se mai una volta proverete a guardare il mondo con gli occhi altrui, vi accorgerete che c’è del paternalismo venato di razzismo nel pretendere che tutti si uniformino all’idea che la Pace sia sempre il bene supremo. Beninteso dalle nostre parti una prospettiva pacifista è preziosa, non foss’altro perché smaschera il neocolonialismo travestito da interventismo umanitario che abbiamo visto all’opera nelle guerre lanciate dagli occidentali in Iraq e in Libia. Ma pretestuosa come quegli interventi militari è l’invocazione della mitica ‘soluzione politica’ anche quando la diplomazia ha esaurito ogni possibilità. Chi vi insiste mira unicamente a nobilitare la scelta dell’inazione. A mettersi la coscienza a posto. A travestire il cinismo da austera moralità.

Ogni guerra è diversa dalle altre

Secondo una teoria molto liberale, consequentialist, la qualità etica di una decisione va misurata con la domanda ‘che succede se’. L’embargo sulle armi è una scelta in assoluto degnissima, ma diventa indecente quando di fatto colpisce solo gli aggrediti, come accadde durante la guerra di Bosnia. L’intervento americano che pose fine a quel conflitto produsse cinquecento morti, inclusi civili innocenti: ma senza quell’orrore a quante altre Srebrenica avremmo dovuto assistere? In altri termini ogni guerra è diversa dalle altre e andrebbe studiata nella sua complessità. Una volta individuatone il congegno, chi cercasse di mitigarne gli effetti dovrebbe badare all’efficacia degli interventi, non solo alla loro aderenza a principi astratti. Soprattutto, mai dovrebbe dimenticare che ogni soluzione ai dilemmi che le guerre ci pongono è impura, quale essa sia. Il compromesso è inevitabile. Lo è perfino per le ong umanitarie che operano in teatri di guerra: quanto più questo è negato, tanto più il compromesso è ingombrante. Qual è il limite dell’accettabile? Nel 1996 la più radicale tra le organizzazioni umanitarie internazionali, Oxfam, lasciò l’Afghanistan pur di non piegarsi alla fatwa sulle donne dell’emiro Omar, che obbligava le ong a mandare a casa tutto il personale femminile (e a sostituirlo di fatto, con gli spioni imposti dai Taliban). Sei anni dopo gli Usa lanciarono l’attacco all’emirato benché l’Afghanistan fosse irrilevante nella geopolitica degli idrocarburi che premeva all’amministrazione Bush. Motivo reale: l’emiro aveva rifiutato di espellere (espellere, non consegnare) bin Laden, ritenendolo innocente. Condannabile ubris imperiale? Forse. Ma se vi mettete nei panni di tante ragazze afghane, anche voi avreste concluso che l’Impero portava una speranza di libertà.

Non demonizzare l’ingerenza umanitaria

Nell’oscena viltà dell’epilogo, il fiasco occidentale è così traumatico da incitare a disinteressarci dell’Afghanistan e di quelle ragazze, ad accondiscendere alla ‘pace’ come la interpretano i Taliban e le dittature più feroci. Eppure un residuo di dignità dovrebbe spingerci a cercare strumenti e strategie per interferire, nell’interesse nostro e dei diritti umani. ‘Ingerenza umanitaria’ non è esattamente una formula popolare, soprattutto in questo momento. Ma la ‘pace’ afghana mostrerà presto le sue linee di frattura, e allora forse comincerà a condensarsi un Afghanistan nuovo, diverso da quello delle caste guerriere (di qua pashtun, di là uzbeche, tagiche, hazara) che da quarant’anni si contendono la carcassa del Paese in un sinistro buskashi. Se l’Europa esiste, quell’Afghanistan futuribile non solo oggi va accolto se profugo, ma va anche aiutato, con ogni mezzo risultasse efficace, a liberare la patria.