Novembre 1980: cronaca d’una tragedia
e del fallimento d’una classe dirigente

Alle 19,34 di domenica 23 novembre 1980 ero su un autobus tra Salerno e Napoli. E ricordo anche che mandai un accidenti all’autista. Il pullman, infatti, sobbalzò e quasi uscì di strada: “Maledetto, non potrebbe guidare un po’ meglio?”, pensai. Anche a Napoli non fui particolarmente chiaroveggente: “Cos’è tutto questo fuggi fuggi? I soliti napoletani… “, commentai tra me e me, vedendo che la piazza della stazione era invasa da auto che andavano in tutte le direzioni, quasi accavallandosi l’una sull’altra. Clacson a distesa, ovviamente. Ma non avevo capito niente. Il giornalista de l’Unità che sarebbe diventato, per caso, uno degli inviati sul terremoto che aveva distrutto decine di paesi dell’Irpinia, del Salernitano, della Basilicata, provocando un numero ancora oggi sconosciuto di vittime, esattamente 40 anni fa ci mise ore a rendersi conto dell’accaduto.

Due giorni per capire l’entità della tragedia

Non si riesce oggi a immaginarlo. Ma i cellulari allora non esistevano. Trovai i gettoni per chiamare, a Roma, Carlo Ricchini, caporedattore centrale de l’Unità. “Che faccio? Torno o resto?”.
“Ma che torni? – rispose Carlo – è un disastro immenso. Da qui non sappiamo quasi nulla. Vai a vedere. Ora mando giù anche gli altri”.

Berlinguer nei territori del terremoto Foto MarioRiccio

Ci vollero quasi due giorni per capire. 48 ore dopo dettavo, infatti, il primo atto d’accusa per i ritardi dei soccorsi ai dimafonisti di Roma (allora i pezzi si trasmettevano così, leggendo anche i punti, le virgole, le virgolette aperte e chiuse).

“Hanno lasciato morire centinaia di persone, che potevano essere salvate. I mezzi di soccorso sono arrivati con 48 ore di ritardo. La tragedia del Salernitano è immane. I morti si contano a migliaia. I comuni dell’Alto Sele non esistono più. Sono stati cancellati dalla faccia della Terra: si tratta di Laviano, Santomenna, Castelnuovo di Conza, Colliano, in provincia di Salerno e di Calabritto, Senerchia, Caposele (Avellino). Nella notte cade la prima neve”, era l’attacco del mio primo pezzo dal fronte terremoto.

Erano piccoli paesi, spesso desertificati dall’emigrazione: “Comuni di povera gente, contadini, braccianti e emigrati, tanti emigrati. In paesi abbarbicati sulle montagne, con stradine larghe neanche due metri, hanno mandato – due giorni dopo – ruspe che non sono neppure riuscite ad entrare. In tutta la zona nessuno coordinava i soccorsi. Si è perfino consentito ai superstiti, in evidente stato di choc, di tornare nei ruderi, nelle case, per cercare di prendere una coperta, un lenzuolo, qualcosa che gli ricordasse i loro cari, senza pensare che potevano crollare, provocando nuove vittime”.

Cinque giorni dopo, nella federazione del Pci di Salerno, dove gli inviati di diversi giornali si ritrovavano per scrivere e dettare i loro pezzi, incrociai Miriam Mafai, già grande firma di Repubblica. “Hai visto che ha fatto Pertini?”, mi disse. E solo grazie a lei rimediai a un “buco” clamoroso che stavo per prendere. Il presidente della Repubblica, infatti, dopo un rapido giro in Irpinia, era tornato al Quirinale ancora sotto choc e aveva convocato la tv per un messaggio a reti unificate, in cui scuoteva la coscienza del paese e del sistema politico, che aveva il suo perno nella Dc.

Il discorso di Pertini

“Italiane e italiani, – diceva in tv il presidente – sono tornato ieri sera dalle zone devastate dalla tremenda catastrofe sismica. Ho assistito a degli spettacoli che mai dimenticherò. Interi paesi rasi al suolo, la disperazione poi dei sopravvissuti vivrà nel mio animo. (…) Quello che ho potuto constatare è che non vi sono stati i soccorsi immediati che avrebbero dovuto esserci. Ancora dalle macerie si levavano gemiti, grida di disperazione di sepolti vivi (…). Ebbene, io allora, in quel momento, mi sono chiesto come mi chiedo adesso, questo. Nel 1970 in Parlamento furono votate leggi riguardanti le calamità naturali. Vengo a sapere adesso che non sono stati attuati i regolamenti di esecuzione di queste leggi. E mi chiedo: se questi centri di soccorso immediati sono stati istituiti, perché non hanno funzionato?”.

Il clamore fu enorme. Il 28 novembre arrivò a Salerno tutta la Direzione nazionale del Pci, all’epoca impegnato nella politica di “solidarietà nazionale” proprio con i democristiani. Il ministro dell’Interno, Virginio Rognoni, aveva già annunciato le sue dimissioni. Da Roma erano arrivati Enrico Berlinguer, Alfredo Reichlin, Gerardo Chiaromonte e Pio La Torre. Da Napoli, Bassolino, allora giovane segretario regionale e Andrea Geremicca, segretario della grande federazione napoletana del Pci.

La prima conferenza stampa si tenne proprio nei locali del Pci di Salerno, in via Manzo 15.
Giovanni Russo, inviato del Corriere della Sera, chiede a Berlinguer se il nuovo governo possa essere presieduto da un comunista o da un socialista. Il segretario del Pci risponde: “Quel che è certo è che, in ogni caso, non deve essere un democristiano”. Valentino Parlato, del Manifesto, lo incalza e gli chiede se è finita la politica di solidarietà nazionale. Berlinguer risponde: “La Dc, avendo dimostrato di non essere in grado di guidare un’azione di rinnovamento della politica e dello Stato, non è in grado di dirigere il governo del Paese”.

La “seconda svolta” di Salerno fu ratificata in una riunione straordinaria che si tenne in un albergo sul lungomare, battuto da una pioggia tempestosa, con un cielo grigio come mai.

Andai a scrivere, subito dopo, a l’Unità di Napoli, con Tonino Tatò (grande “custode” di Berlinguer) appollaiato sulla mia spalla, che cercava di attutire gli aggettivi, per rendere la “svolta” un po’ meno ripida.

Berlinguer coi soccorritori Foto MarioRiccio

Rimasi quasi un mese (o forse più) in quelle zone, frequentando anche le prime assemblee in cui i terremotati cercavano di ottenere le risposte per la ricostruzione.

Arriva la camorra

La camorra iniziava già a stendere le sue mani sugli appalti. Marcello Torre era il sindaco di Pagani, eletto in una lista civica, ma con una lunga militanza nella Dc alle spalle. Lo conoscevo da anni e lo vidi in una di queste assemblea alla Camera del lavoro di Nocera Inferiore, in cui poteva entrare chiunque.
Tanta libertà di movimento non mi fece una buona impressione.
La sera del 10 dicembre 1980 dettai a Roma un pezzo con un finale cupo, come per un presentimento. E il passaggio finale era proprio su politica e camorra.

“Le inchieste per omicidio, nell’Agro nocerino, vengono archiviate in fretta. Gli assassini di Michele Bongiorno e di Antonio Esposito Ferraioli girano – infatti – ancora a piede libero e – presumibilmente – a mano armata”. Quel pezzo, il giorno dopo, non uscì, per le cose che succedono spesso quando i giornali sono invasi da mille articoli. Fu uno scoop mancato, ma non fu quello il mio dolore. La mattina dopo, infatti, quando i giornali ancora non erano arrivati in edicola, Marcello Torre, appena uscito di casa, fu assassinato. E 40 anni non sono bastati per capire davvero chi è stato il mandante.