Non solo Cucchi:
fallimenti e riscatti
dell’Arma dei carabinieri
Lungi da noi l’idea di “criminalizzare” i carabinieri. L’impegno costante contro le cosche, il terrorismo e i delinquenti di ogni tipo è un fiore all’occhiello per tutto il Paese; i loro interventi sono – nella stragrande maggioranza dei casi – esemplari: basti pensare ai ragazzini lombardi sequestrati su un pullman da un pazzoide poche settimane fa e liberati dai militari dell’Arma senza un graffio (e senza fare secco il sequestratore).
Però non si può prescindere da questa pessima sequenza: prima un violento ceffone e una spinta a causa della quale cade all’indietro, sbattendo molto forte la testa per terra; poi un fortissimo calcio nella schiena, seguito da un secondo calcio sferrato in pieno viso. Sono i fotogrammi del pestaggio subito da Stefano Cucchi – 31 anni, geometra, ex tossicodipendente, di esile corporatura – nella caserma della compagnia Casilina, a Roma. Era stato portato lì per detenzione e spaccio di venti grammi di hashish e due di cocaina. Il trentunenne romano, picchiato con ferocia nella notte tra il 15 e il 16 ottobre 2009, morì il 22 ottobre nell’ospedale “Pertini”.
Dieci anni dopo finalmente spunta la verità, quella nascosta da numerosi carabinieri, inclusi alcuni ufficiali, con granitica perseveranza. La famiglia della vittima, guidata dalla sorella Ilaria, non si è mai arresa di fronte all’ingiustizia e all’omertà. Grazie a vari indizi e testimonianze (inclusa quella fondamentale e recentissima in Corte d’assise da parte di uno dei militari presenti al momento del pestaggio, Francesco Tedesco) il processo è a una svolta. E il comandante generale, Giovanni Nistri, ha annunciato che l’Arma si costituirà parte civile contro i tre imputati accusati di omicidio preterintenzionale, previsto dall’articolo 584 del Codice penale: si verifica quando qualcuno muore come conseguenza della condotta descritta negli articoli 581 (reato di percosse) o 582 (lesioni personali). Pare che – dopo gli ultimi sviluppi – voglia essere parte civile anche il ministero della Difesa, da cui i carabinieri dipendono.
Tedesco, sentito nel 2018 dal pm Giovanni Musarò per tre volte, ha confermato in dibattimento le accuse rivolte ai colleghi-coimputati Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro. Secondo lui, fu Di Bernardo il primo carabiniere a dare il via al pestaggio, con un ceffone mollato a Stefano. La causa? Una reazione verbale non gradita. “Di Bernardo diede a Cucchi uno schiaffo violentissimo mentre D’Alessandro gli sferrò un calcio al gluteo. Poi Di Bernardo spinse a terra Cucchi, che cadde col bacino e picchiò la testa, tanto sentii il rumore. E mentre stava giù gli arrivò un calcio in faccia da parte di D’Alessandro”. Racconta ancora Tedesco: “Intervenni, gridai ‘che cazzo fate’, come vi permettete, fatela finita’. E se non fossi intervenuto, allontanandoli da Stefano, i due colleghi avrebbero proseguito”. Poi: “Anzitutto chiedo scusa alla famiglia Cucchi e agli agenti della polizia penitenziaria, imputati al primo processo. Per me questi anni sono stati un muro insormontabile. Non era facile denunciare i miei colleghi. In dieci anni della mia vita non avevo raccontato niente a nessuno”.
Tedesco ha confessato di essere stato, subito dopo l’assassinio, isolato dai colleghi e invitato a tacere, per non rischiare il posto di carabiniere. Cosicché non raccontò quello che sapeva al pm Vincenzo Barba, che lo aveva convocato nell’ottobre del 2009. Disse il falso pure nel 2011, durante il primo processo, in cui erano imputati alcuni medici del “Pertini” e tre agenti di polizia penitenziaria, assolti in tutti i gradi di giudizio. “La mia relazione di servizio sui fatti di quella sera – ha raccontato Tedesco – era stata fatta sparire, avevo fatto delle denunce precise e non c’era più niente. Sono state modificate le annotazioni in mia presenza come se non esistessi, Mandolini mi ha invitato più volte a sorvolare su alcuni episodi, tanto ci avrebbe pensato lui come comandante della caserma a gestire la cosa. Nel 2015, quando siamo stati sentiti in Procura, abbiamo capito che le cose si stavano mettendo male e allora ho deciso di raccontare al mio avvocato tutto quello che sapevo”. Poi: “Quando ho letto il capo di imputazione per questo processo, era esattamente descritto quello che io avevo visto con i miei occhi. Ci ho pensato e ho capito che non riuscivo più a tenermi questo peso”.
Guardando freddamente – ed è davvero difficile provarci – la vicenda, la gestione del caso da parte dell’Arma può essere paragonata a un grande fallimento. Se un amministratore delegato si facesse sfuggire per un decennio fatti meno gravi di questi, accaduti in una grande azienda, verrebbe cacciato e la sua società sarebbe costretta a pagare danni milionari. L’Arma, invece, scarica su pochissimi commilitoni ogni responsabilità. Tutti gli altri restano al loro posto. Non hanno visto, sentito e saputo niente dal 2009 in poi. Caso ancora più strano e surreale, se si considera che ai carabinieri spetta investigare su crimini di vario genere, con mezzi e competenze sofisticate. In questa circostanza quelle competenze e quei mezzi non sono serviti e per molto tempo i sospetti, sollevati dalla famiglia della vittima e da alcuni media, sono stati respinti con sdegno. Eppure quel massacro è avvenuto a Roma, nella Capitale, mica in una piccola caserma sperduta tra le montagne. Dunque, è un caso che dovrebbe scuotere la Benemerita dalle fondamenta.
Ribadiamo una questione già posta lo scorso anno, quando il velo dell’omertà aveva cominciato a squarciarsi. Di sicuro, anche il comandante Nistri – se dovesse indagare su un crimine nascosto e insabbiato per un decennio all’interno di una comunità gerarchicamente organizzata – sospetterebbe che i vertici “non potessero non sapere”; oppure ne dedurrebbe che quei vertici non hanno avuto il controllo della scala gerarchica. In base a quello che sappiamo, il comandante generale dell’Arma, e suoi tre predecessori dal 2009 a oggi, non hanno mai risposto a quesiti importantissimi. Come è possibile che l’Arma dei Carabinieri lungo tutta la catena di comando, durante 10 anni di depistaggi sul fronte di un delitto tremendo (anche perché commesso da chi dovrebbe proteggerci), non abbia mai sentito la necessità di fare chiarezza al suo interno? Come è possibile che nessuno avesse raccolto almeno qualche voce su un fattaccio avvenuto a Roma, a poche migliaia di metri dalla sede del Comando generale, e sui suoi retroscena.? A giudicare dalle indagini, i protagonisti ne parlavano al telefono e via email quasi con noncuranza, convinti di averla fatta franca: nessuno ha mai saputo? Il comandante generale, gli alti ufficiali del comando e giù fino alla caserme non si sono mai posti alcune domande banali? È mai possibile che ancora l’anno scorso i vertici dell’Arma definissero l’episodio, ormai venuto alla luce, una “patologia… circoscritta a quel fatto”?
Di certo, la stragrande maggioranza dei carabinieri (vale anche per le altre forze dell’ordine) non è colluso con gruppi di violenti né commette violenze. Però altri episodi inquietanti sono avvenuti negli ultimi anni. Per esempio, lo stupro di due studentesse americane a Firenze nell’estate 2017, attribuito a due carabinieri, di cui uno già condannato in primo grado (sono stati destituiti dall’Arma con accettabile tempismo). Sempre a Firenze, nel 2017 è stata fotografata la camerata della Caserma Baldissera: lì un giovane carabiniere del VI Battaglione aveva affisso una bandiera neonazista. Tre stazioni dell’Arma in Lunigiana sono state travolte da un’inchiesta della Procura di Massa per presunti abusi su stranieri. Nel febbraio scorso a Macerata (dopo l’assassinio di Pamela Mastropietro, ragazza tossicodipendente, da parte di spacciatori africani) il razzista Luca Traini, condannato per avere sparato ai migranti in un bar allo scopo di “vendicare” Pamela, era stato benevolmente fotografato in una caserma dei carabinieri col tricolore sulle spalle. Per non parlare del coinvolgimento in processi e inchieste – a Napoli e Palermo – di alti e altissimi ufficiali. Sono solo alcuni dei casi più recenti.
L’Arma ha dunque il dovere di fare pulizia a ogni tutti livello; non solo per quel che riguarda il caso Cucchi. Perché deve assolutamente eliminare due sospetti: o non si accorge di quello che accade nelle sue caserme (ipotesi inquietante), quindi deve porre rimedio; oppure preferisce non vedere (ipotesi ancora più inquietante). È positiva la scelta, annunciata dal comandante dell’Arma, della costituzione come parte civile. Nelle lettera inviata alla sorella di Cucchi il generale Nistri ha scritto: “Io per primo, e con me i tanti colleghi, oltre centomila, che ogni giorno rischiano la vita, soffriamo nel pensare che la nostra uniforme sia indossata da chi commette atti con essa inconciliabili e nell’essere accostati a comportamenti che non ci appartengono”. Noi crediamo alla sua buona fede. Però i carabinieri devono capire qual è l’ingranaggio che a volte si inceppa, provocando tragedie; senza farsi incantare dalla sirene dell’impunità, quelle suonate da certi politici e ministri quando li “usano” per mostrare i muscoli che non hanno. Per il bene dell’Arma. E di tutti.
Sostieni strisciarossa.it
Strisciarossa.it è un blog di informazione e di approfondimento indipendente e gratuito. Il tuo contributo ci aiuterà a mantenerlo libero sempre dalla parte dei nostri lettori.
Puoi fare una donazione tramite Paypal:
Puoi fare una donazione con bonifico: usa questo IBAN:
IT54 N030 6909 6061 0000 0190 716 Intesa Sanpaolo Filiale Terzo Settore – Causale: io sostengo strisciarossa
Articoli correlati