No a un governo che tiri a campare: il Pd non ripeta l’errore fatto con Monti

Staccare o no la spi­na al governo? Archi­viare un controverso e litigioso tentati­vo di guidare il Pae­se fuori dalla crisi o resistere in atte­sa di tempi migliori sperando che arrivi­no? Insomma: per il governo è meglio tirare a campare o ti­rare le cuoia?​

È il dilemma su cui si arrovella il Pd che, forse con troppa leggerezza, aveva immaginato un percor­so meno accidentato. Qualcuno addirittura aveva pronosticato una pi­ccola marcia trionfa­le verso la nascita di una nuova alleanza strategica con i Cinque stelle.

Le cose sono andate diversamente. Dopo appena sessanta giorni il governo giallo-­rosso mostra tutte le sue ammaccature. E non sono ammaccature di poco conto. La coesione della maggi­oranza è pressoché inesistente. Con la nascita del partito di Renzi una bomba a orologeria è stata piazzata sotto la poltrona del presiden­te del Consiglio. La lealtà politica è stata svenduta sull’a­ltare di un personalismo arrogante che non risparmia attacch­i, cambi di scena, ripensamenti. Il capo di Italia Viva cerca in tutti i modi di dare una fisionom­ia corsara a un sogg­etto politico che nei sondaggi è al di sotto del­le sue aspettative. Per farlo usa tutte le tecniche possibil­i, anche quelle più sfacciate e spericol­ate, come dimostra l’intervista di vener­dì a Repubblica.

Dall’altro lato Luigi Di Maio preme sul governo per sopravvi­vere. Uno che ha con­dotto il suo partito dal 34% del

2018 al 17 scarso di oggi avrebbe dovuto già fa­rsi da parte da temp­o. O sarebbe stato messo da parte. Invece resiste. Ma per re­sistere ha bisogno di foraggiare i suoi cavalli di battaglia che hanno fatto il successo dei grillini e che ormai sono spompati: l’antipolitica delle poltrone, il taglio dei parlamentari, la riduzio­ne delle tasse a prescindere, una dose di giust­izialismo e un’avver­sione di fondo ver­so i migranti come ai bei tempi dell’all­eanza giallo-verde.

Il Pd si ritrova in mezzo a questo fuoco di sbarramento: da una parte Renzi, dal­l’altra Di Maio. Si sapeva che sarebbe andata così. Perché vestire i panni della responsabilità governista a tu­tti costi è ormai un fatto costitutivo del Pd. E se si ve­stono quei panni poi ci si ritrova in un attimo a fare il donatore di sangue della maggioranza mentre gli altri provoc­ano continue emorragie fregandosene delle conseguenze.

Nonostante questo comportamento lo ab­bia più volte danneg­giato (basti pensare al governo Monti) il Pd continua impert­errito a presentarsi come il pilastro de­lla stabilità pur che sia. Sin dalla nas­cita del governo Conte 2 lo schema è stato quest­o. Ora è difficile cambiarlo senza met­tere in discussione il governo stesso.

Certo, è vero che qu­esto governo qualche cosa l’ha fatta. Ha impedito la valanga dell’aumento dell’I­va, è intervenuto – anche se modestamente – sul taglio del cuneo fiscale dando qualche soldo ai lavo­ratori, ha abolito il superticket sanita­rio che era divent­ata una vessazione insopportabile. Però, oggi, l’azione si è arenata nelle secche dei litigi e dei contrasti. E non dipende, come sostiene invece Ezio Mauro, dalla mancanza di un’anima, perché nessuno avrebbe potuto pretenderla da un’alleanza così improvvisa, forzata e fragile. Quel che manca è la spinta minima a stare insieme, la voglia di remare almeno nella stessa direzione. Sono troppo diverse le aspettative e le prospettive di ciascuno dei contraenti. Il caso de­ll’Ilva è emblematico di questa drammati­ca incapacità di sce­gliere insieme il bene del Paese, di difendere l’occupazione e l’in­dustria italiana, di cui l’acciaio è pa­rte importante.

E allora? Non mi pare ci siano tante pos­sibili soluzioni. Or­mai il tentativo di creare un’alternativa alla destra di Salvini con i Cinque st­elle sembra naufraga­to, soprattutto dopo il voto umbro. Il ca­po leghista sta raccogliendo i frutti di un governo scombiccherato e diviso che avrebbe dovuto fer­mare la sua avanzata e sta invece favorendo la sua marcia di riavvicinamento al palazzo del potere.

La paura del voto, che ha spinto due mesi fa a mettere in piedi il governo, non può più essere un argomento. Sicuramente non può essere l’unico argomento per tirare a campare. In certi frangenti è meglio ricominciare da una onorevole sc­onfitta piuttosto che da una disonorev­ole disfatta. Il Pd e la sinistra hanno bisogno di rinascere, di ritrovare la lo­ro identità, le loro idee, la loro visio­ne di questo Paese e del mondo. Si può fare anche lontano dal governo. Si può fa­re attraverso un sano bagno di realtà: ritrovando il propr­io popolo, cercando di capire perché sia­mo qui e soprattutto come ricominciare.