Non è il Green pass
il vero problema
dell’università
L’introduzione dell’obbligo del Green pass nelle sedi universitarie ha suscitato la protesta di un gruppo (per la verità piuttosto sparuto) di docenti e ricercatori a vario titolo, alcuni dei quali precari, che in un documento messo in risalto dai media hanno parlato di discriminazione della comunità studentesca, insinuando addirittura un paragone azzardato con le leggi razziali del ’38, analogia che ha provocato la reazione indignata di storici e studiosi della Shoah come Guri Schwarz e Lev Metvej Loewenthal. Di là dalla questione specifica, il documento ha sollevato un dibattito acceso sui social riguardo alla responsabilità e al ruolo critico del mondo accademico, che nella circostanza drammatica della pandemia avrebbe recuperato il diritto-dovere di far sentire la sua voce, con riferimento soprattutto alle prese di posizione di Agamben e Cacciari.
I problemi della didattica online
La prima considerazione che si potrebbe opporre a questa lettura autocelebrativa è la scarsa propensione dell’università ad analizzare criticamente la situazione che si è venuta a creare con l’introduzione della cosiddetta didattica online. Le proteste anche energiche che si sono levate contro l’uso di piattaforme private all’Università e il dibattito conseguente sulla Dad – che non è mai arrivato a concretizzarsi in un documento pubblico, come nel caso del Green pass – non hanno insistito abbastanza sulle discriminazioni che essa provoca e sulla perdita del senso stesso di comunità accademica. Anzi, molti colleghi universitari (e per la verità anche alcuni studenti forse ignari di ciò che la Dad comporta a lungo termine) hanno insistito piuttosto candidamente sui vantaggi per gli studenti meno abbienti, che seguendo le lezioni da casa eviterebbero le spese di viaggio e di alloggio, mentre l’università può contare su di un vantaggioso aumento delle iscrizioni. Sono perciò giunti ad auspicarne il mantenimento in condizioni normali, dopo la fine dell’emergenza pandemica.
In realtà non è difficile vedere come la didattica a distanza, resasi necessaria per tutti durante il lockdown, se automaticamente estesa si fondi su una effettiva discriminazione tra gli studenti di condizione agiata, che frequentano in presenza entrando a far parte del mondo universitario con tutto ciò che questo comporta in termini di socialità e di opportunità culturale, e gli studenti più deboli, ovvero coloro che in principio avrebbero diritto a borse di studio, mense e alloggi a prezzi decenti, ai quali viene invece prospettato il “vantaggio” di seguire le lezioni relegati nei loro spazi domestici. Ne consegue che questi ultimi non solo verrebbero privati dell’esperienza universitaria in sé, formativa a livello sia individuale che collettivo, ma molto probabilmente otterrebbero, a parità di tasse universitarie, meno diritti e probabilmente una preparazione assai meno completa e approfondita sul piano disciplinare.
La precarizzazione dell’università
A fronte di ciò, verrebbe da concludere che l’accademia preferisce concentrarsi su questioni astrattamente simboliche – quel Green pass che consentirebbe tuttavia agli studenti di tornare ad appropriarsi in sicurezza degli spazi dell’università – piuttosto che affrontare nel concreto le tante discriminazioni che vivono e prosperano dentro il sistema, e che negli ultimi anni hanno reso ancora più dure non solo le condizioni degli studenti più deboli, ma anche dei docenti precari. A seguito dei tagli finanziari e del cosiddetto blocco del turnover, che subordina l’assunzione di nuovi docenti a una serie di parametri economici che relegano all’ultimo posto le esigenze della didattica, le nostre università si sostengono sempre di più sulle spalle dei contrattisti, che hanno gli stessi doveri e gli stessi obblighi dei docenti strutturati, ma il cui stipendio si aggira sui 1500 euro lordi all’anno per l’intero corso, esami compresi.
La precarizzazione dell’università è comune a molti paesi europei, ma ciò che distingue la situazione italiana sono le condizioni del precariato: contratti pagati una miseria, docenti a contratto esclusi dai consigli di dipartimento e dunque dal confronto democratico, accesso ai concorsi universitari attraverso una abilitazione nazionale con parametri bizantini (che variano da settore a settore), dai quali è esclusa la valutazione della didattica. Sono condizioni note a tutti: eppure su questo l’accademia tace, o peggio acconsente, e neppure la pandemia ha saputo innescare, come molti auspicavano all’inizio, una riflessione che chieda a gran voce l’impegno del governo e del ministero per far fronte alle esigenze della didattica, restituendo dignità e diritti a chi la pratica e a chi ne usufruisce.
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