Via Trump, resta
il fantasma
del trumpismo
Basterà la dipartita di Donald Trump – poiché dipartita sarà, a meno di non cadere nel baratro del colpo di stato – per diluire il trumpismo? La domanda è tutt’altro che oziosa, poichè il populismo al potere deve fare i conti con la sua volontà di potere “qui e ora”. Diceva Isaiah Berlin, che il populismo non si pensa come movimento minoritario. E’ quindi duro a morire e lascia segni e, spesso, macerie. Non vuole essere, e non è, una maggioranza come un’altra. Questo rende il suo passaggio dal governo all’opposizione non indolore per la democrazia, che lo genera e però deve in qualche modo digerire senza esserne soffocata. Questo è il senso del momento populista negli Stati Uniti.
Il populismo pretende un atto di fede
Tra i problemi che Trump ha messo sul tappeto, e che non scompariranno quando se ne sarà andato dalla Casa Bianca, vi è quello della sfiducia di moltissimi americani che lo hanno sostenuto nella legittimità del sistema istituzionale. Il danno fatto da Trump è enorme e sarà difficile da riparare. Un danno che deriva immancabilmente dal tipo di rappresentanza che il leader populista crea. Una rappresentanza non basata sulla fiducia ma sulla fede. La fiducia è un investimento su una promessa che, alla fine del mandato, viene soppesata se così si può dire, con un calcolo molto aprossimativo di quel che è stato o non è stato fatto nel corso della legislatura. La fiducia è interlocutoria, mai una cambiale in bianco; instabile e pronta a diventare sfiducia e, quindi, a instigare un elettore ad abbandonare un partito per un altro o, se ha una identificazione emotiva con il suo partito, a ritirarsi dal gioco. Cambiare partito o non andare a votare sono due esiti di una fiducia che viene meno. La fede è altra cosa.
Prima di tutto perché parte da un’adesione emotiva che è come una cambiale in bianco. La rappresentanza populista si regge sulla fede, la quale tende ad eliminare la distanza tra rappresentato e rappresentante. Il suo scopo è chiaro: incorporazione del popolo – quello “vero” – nella figura, nelle parole, nella narrativa del leader, il quale è non uno tra i tanti, ma l’Uno, che sta sopra il partito. L’identificazione del popolo populista con il leader è siglata e cementata dalla fede: atti di fede, senza riserve. Questa è la rappresentanza che Trump ha fabbricato in questi cinque anni di persistente comunicazione diretta con la gente.
Se si considera illegittima l’alternanza
Ora, un leader che costruisce la narrativa di potere sulla fede può con facilità seminare il “dubbio” che le opzioni altre – o l’opposizione – siano illegittime. In effetti può seminare odio verso quelli che sono presentati come nemici assoluti. L’incarnazione del leader con il suo popolo non concede facilmente che le istituzioni possano essere legittimamente usate dagli avversari. Su questa premessa Trump ha condotto una martellante campagna per persuadere i suoi elettori che non si deve riconoscere legittimità all’alternanza – se non corrisponde al volere del popolo “vero”, il voto è fasullo. Le regole valgono solo se si vince.
Dunque: a Trump o si crede senza riserve o non si crede affatto. Non ci sono vie di mezzo. La fede in lui si traduce nel rifiuto della vittoria di Joe Biden. Lo si è visto nel corso dell’assalto al Congresso – gli hooligans urlavano le stesse cose che Trump stava dicendo da mesi: che lui è il Presidente “vero”, solo lui. Questa terribile logica che non conosce fallibilismo, che carica di dubbio tutto ciò che non corrisponde alle proprie verità, è diffusa largamente tra gli elettori di Trump. E con essa, repubblicani e democratici dovranno fare i conti una volta che Trump se ne sarà andato. Ricostruire la legittimità delle istituzioni gestite dai “nemici” del popolo “vero” sarà un lavoro lungo e difficile. Il trumpismo aleggerà sugli Stati Uniti d’America come un fantasma.
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