Noi, gli ittiti e il clima che cambia: non possiamo restare a guardare
“Chi erano gli Ittiti?” questo titolo del paragrafo di un mio libro di storia di cui non ricordo nome e autore, mi è rimasto impresso nella mente da molte decine di anni. Né ricordo se quella domanda ha avuto una risposta e quale fosse. Tuttavia riproponendomela oggi quella domanda troverebbe finalmente una risposta attendibile nel, come al solito, bell’editoriale (Risposte) di Giovanni De Mauro al n. 1506 di “Internazionale” del 7/13 aprile.
Cominciamo col dire dove stava questo popolo: “Nel secondo millennio avanti Cristo gli It titi abitavano in quella che oggi è la Turchia. Questa civiltà scomparve in modo rapido e misterioso.” Insomma le mie conoscenze fanno un immediato passo avanti, ma si fermano subito al mistero della scomparsa. Sino a quando non interviene ancora De Mauro dicendoci che “Di recente un gruppo di archeologi ha individuato un periodo di grave siccità tra il 1198 e il 1196 aC. L’ipote si è che la mancanza di raccolti scatenò carestie e conflitti, e fu un punto di non ritorno, anche se probabilmente il clima non fu l’unica causa della scomparsa degli ittiti.”.
Insomma la causa della loro scomparsa potrebbe essere assimilabile a quella della estinzione dei dinosauri 65 milioni di anni fa. E qualche preoccupazione dovrebbe cominciare a serpeggiare anche tra noi circa tremila di anni dopo, lasciando da parte i dinosauri. Lasciando da parte la loro estinzione, ma senza dimenticare che non pochi scienziati quando si affronta il problema dei mutamenti climatici e dell’incuria con cui molti /troppi se ne curano; non pochi scienziati dicevo, paventano il rischio di una sesta estinzione di massa: che sarebbe quella del genere umano.
Rischio estinzione
Gli elementi ci sono tutti: la grave siccità che coinvolge gran parte delle regioni italiane e i loro fiumi e laghi. Ma coinvolge anche quasi per intero l’intero continente Europa. E, come è difficile negare, è provocata dall’incalzante mutamento del clima.
Insomma se il perfezionamento dell’intelligenza artificiale dovesse dar luogo alla costruzione di robot pensanti, mi viene da pensare (ancora riesco a pensare pur senza essere un robot) che un giorno, scomparsa l’umanità che lo ha “creato”, qualcuno di questi si potrebbe chiedere: “chi erano gli esseri umani”?”. E la risposta potrebbe essere quella di De Mauro a proposito degli ittiti: una civiltà che “scomparve in modo rapido e misterioso.”
Rapido? Eh sì. In un pianeta di 4,5 miliardi di anni 10/12.000 anni sono l’equivalente di qualche secondo nel calendario cosmico con cui si misurano in 365 giorni i 14 miliardi di anni che sono l’età dell’universo. Allora? Non ci affanniamo. Tanto non c’è più niente da fare.
No. Non è così. Perché è vero, invece, che “coloro che affermano che il mondo sarà sempre così come è andato finora contribuiscono a far sì che l’oggetto della loro predizione si avveri”. Lo ha scritto Immanuel Kant che l’anno prossimo avrebbe compiuto trecento anni (In che cosa consiste il progresso del genere umano verso il meglio?) e ce lo ricorda Monsignor Giovanni Ravasi nel suo domenicale breviario su “Il sole 24 ore” del 23 aprile (Rassegnàti).
La minaccia siamo noi
Così stanno le cose. E significa che al peggio c’è rimedio.
Gli ittiti – per non parlar dei dinosauri la cui scomparsa è stata salutare per la Terra e per il genere umano – gli ittiti, dicevo, non avevano una Parigi in cui riunirsi per vedere come attrezzarsi per non soccombere.
Noi sì. E nostri rappresentanti ne hanno discusso a Parigi, appunto, nel dicembre del 2015, stabilendo che al rischio di estinzione si poteva e doveva porre rimedio e individuando gli strumenti per farlo. Ne hanno discusso, salvo, poi, a tenerne pochissimo conto. Perché la verità è questa che si legge su “The Lancet” (qui)
“Il pianeta e le sue forme di vita sono minacciate dalla nostra avidità, dal nostro sfruttamento e dalle nostre bugie. Se non si affrontano i pericoli creati dagli stessi esseri umani, la salute per tutti non sarà che un miraggio”.
Insomma abbiamo voglia di cercare le cause di quanto sta succedendo al di fuori delle nostre responsabilità, ma la verità è che “la minaccia più grande che dobbiamo affrontare siamo noi stessi”. Il che, non tanto paradossalmente, rende tutto potenzialmente più semplice. Perché una cosa è battersi il petto riconoscendo mea culpa, mea culpa, altro sarebbe dover combattere contro invincibili cause e forze esterne.
Il 22 aprile, anche quest’anno, se ne è discusso come da 53 anni, nell’annuale giornata mondiale della Terra, l’Earth Day che dal 22 aprile del 1970 le Nazioni Unite pongono alla nostra attenzione. Nostra oggi significa all’attenzione di oltre 8 miliardi di persone. Ma, dato per scontato che una buona metà ha altro cui pensare, resta comunque l’altra metà che dovrebbe pensare alla vivibilità del pianeta per sé e per gli altri. Altri che sono non solo i restanti quattro miliardi (poveri, affamati e in tutt’altre guerre affaccendati), ma anche gli altri a venire.
A questi che verranno; a quelli che si individuano come le “generazioni future”, dato per scontato che l’estinzione non sta proprio dietro l’angolo, che Terra daremo ai nostri nipoti e pronipoti e loro figli? Una Terra certamente diversa. Nella quale bisognerà adattarsi a vivere in un modo diverso da come la si vive oggi. Il che significa che se si riuscirà a contenere l’incremento delle temperature entro e non oltre due gradi centigradi, molte realtà oggi presenti saranno anche irreversibilmente mutate e al mutamento bisognerà adattarsi.
Ma l’adattamento, è il caso di dire, non sarà la fine del mondo.
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