Nicotera, città simbolo dove di nuovo si muore di mafia
Nicotera è la città in cui nell’estate dell’80, il giorno dopo il trionfo elettorale del Pci alle elezioni locali, fu assassinato Peppino Valarioti, dirigente del partito, figlio di contadini, laurea in lettere classiche, politico e docente al liceo scientifico di Rosarno. A quei tempi, la sinistra era in prima linea contro la ‘ndrangheta. Un attentato a un imprenditore o a un commerciante che non pagavano il pizzo doveva diventare il problema di un’intera comunità. Lo ha spiegato pochi anni fa Girolamo “Mommo” Tripodi, già leggendario sindaco di Polistena, oggi scomparso, in una bella testimonianza scritta insieme a Marcello Villari (“Il riscatto”, edizioni Rubettino, 2007). L’obiettivo era “far capire ai cittadini che combattere le cosche non era solo affare della magistratura e delle forze dell’ordine, ma una grande lotta popolare, perché la ‘ndrangheta era contro i lavoratori, i coltivatori diretti, i commercianti, gli imprenditori, colpiva i loro interessi, stracciava i contratti di raccoglitrici d’olive e braccianti, ostacolava la crescita economica e civile di tutta la nostra comunità”. L’organizzazione criminale a volte abbozzava, altre sparava, come accadde con Valarioti, altre ancora tendeva la mano ad organizzazioni eversive, cercando di cavalcare moti popolari come quello di Reggio Calabria, nel 1970.
Oggi la politica, così come era concepita da Valarioti, da Tripodi–e continua a esserlo da Giuseppe Lavorato, che si batte per i diritti degli immigrati e degli italiani sottoposti dal caporalato a uno sfruttamento selvaggio – è spesso considerata con sufficienza, un reperto vintage oscurato dalla cosiddetta modernità. Il problema è che le mafie, nonostante un contrasto investigativo e giudiziario spesso efficacissimo, sonosempre più forti e la politica “al passo coi tempi” nel migliore dei casi attende che la giustizia faccia il suo corso, nel peggiore scende a patti o prende ordini dai clan. Per capirlo è sufficiente ritornare a Nicotera, da dove siamo partiti. Uno degli ultimi raggruppamenti politici ad aver governato la città si chiamava “Patto per la legalità”, ma questo non ha impedito che nel 2016 il Comune venisse sciolto per infiltrazioni criminali: erala terza volta in tre anni.
Immergersi nelle relazioni consolidate dal clan dominante, in questo caso quello ‘ndranghestistadei Mancuso, richiede un navigatore molto aggiornato, una mappa comprensiva dei nomi di professionisti, soprattutto avvocati e commercialisti, uomini politici, personaggi in divisa, massoni di ultima generazione, quelli con cui il segmento più elevato della ‘ndrangheta coltiva intese e alleanze. Ai Mancuso molti si inchinano, coi Mancuso molti fanno affari. In casa Mancuso i corleonesi di Totò Riina tentarono, senza riuscirci, di convincere le principali famiglie di ‘ndrangheta a unirsi alla strategia delle bombe. Il clan è formato dai discendenti della cosiddetta “generazione degli undici”, gli undici figli di Peppe Mancuso, classe 1902. La cosca è accreditata di contatti diretti coi cartelli della droga colombiani, diramazioni dal Canada all’Australia e, rientrando nei confini nazionali, Piemonte, Lombardia, Emilia Romagna. Non potevano mancare quelli con Mafia capitale. Salvatore Buzzi, uno dei boss romani, chiedeva ai Mancuso, grazie all’intermediazione del clan Piromalli, di poter gestire attività in Calabria presso un Centro per l’accoglienza dei richiedenti asilo (il Cara di Cropani Marina). In cambio, un imprenditore vicino ai Mancuso otteneva a Roma un subappalto per le pulizie del mercato Esquilino. La ragnatela è quasi ovunque ma il cuore e la mente del ragno continuano a battere tra Limbadi e Nicotera.
Chi si ribella al clan rischia e qualche volta muore. Com’è accaduto a Matteo Vinci, ucciso nell’ aprile scorso da una bomba piazzata nella sua auto: il padre è stato a lungo ricoverato in gravi condizioni. La famiglia Vinci, agricoltori di Limbadi, centro a pochi chilometri da Nicotera, rifiutava di cedere i propri terreni, una contesa con gente del clan Mancuso che si protraeva da 25 anni. Il 9 aprile scorso l’auto su cui si trovavano Matteo, al volante, e il padre Francesco, viene distrutta da un ordigno azionato a distanza. Un’esecuzione spettacolare che secondo Nicola Gratteri, procuratore della Repubblica di Catanzaro, è anchemessaggio lanciato alla popolazione: la legge del clan non si discute.E a Limbadi la legge la fanno i Mancuso.
Nicotera, 5000 abitanti, è una città dimenticata dalle cronache.Per una breve parentesi è riemersa grazie a un elicottero, quello atterrato sul lungomare nell’agosto del 2016. Si trattava del pezzo forte di una cerimonia nuziale. Sposa in abito bianco, sposo in completo scuro, mulinare di palema senza sottofondo wagneriano alla Apocalipsenow, applausi della folla confinata oltre le transenne dell’improvvisato campo volo, poi la coppia tocca finalmente il suolo. Lo racconta Enza dell’Acqua, giovane cronista del Quotidiano del Sud. Un pezzo della sua città, forse quello più bello e caratteristico è stato privatizzato per alcune ore. L’uomo sceso dall’elicottero ha precedenti di polizia e, fin qua, poco male. Il vero problema è il suo legame indiretto con uno dei rami più importanti della ‘ndrina dei Mancuso. L’atterraggio spericolato, non si capisce bene autorizzato da chi, ma sicuramente tollerato (se non approvato) dall’amministrazione comunale, è principalmente una manifestazione di potere mafioso, visto che di mezzo c’è una delle consorterie più potenti di Calabria. In seguito al caso, il sindaco presenta le dimissioni.
Anche l’elicottero è solo un promemoria, serve a ricordare chi comanda in quello scampolo di Sud dove un Mancuso è persino stato sindaco. Forse è lo stesso (sicuramente appartiene alla stessa società) che fece piovere petali di rosa durante i funerali romani di un patriarca della famiglia Casamonica, un radicatissimo clan capitolino. Dunque lunga vita ai Mancuso nella loro terra d’origine, figli maschi e prosperità, cioè buoni affari senza badare alla provenienza e soprattutto all’odore dei soldi. Ancora ci si ricorda di quella valigia depositata da un broker degli stupefacenti, in contatto coi colombiani e arruolato dai Mancuso, all’Istituto di credito Sammarinese. Milioni dall’odore non metaforico di muffa, il denaro almeno in quel caso puzzava davvero (era stato conservato sotto terra) ma ciò non impedì che finisse in cassa. Per poche ore l’Italia si ricorda di Nicotera, di Limbadi, poi l’attenzione si sposta altrove. Il sole tramonta su quella storia, che si potrebbe definire strana solo se il contesto non fosse lo stesso in cui le statue della Madonna in processione deviano per “inchinarsi” sotto i balconi dei boss agli arresti domiciliari.
L’elicottero, un Robinson 14, della ditta Robotech, parte dal campo sportivo di Nicotera e fa rotta sull’Affaccio a mare, posandosi delicatamente sulla Rosa dei Venti che abbellisce la pavimentazione di largo Castello. Oltre le transenne, ci sono circa quattrocento persone, tra loro il sindaco, Franco Pagano e il vice, Francesco Mollese, presenti insieme alle loro signore. La privatizzazione della piazza è temporanea ma totale, il Comune contribuisce con permessi e transenne, i camerieri si affannano nella distribuzione degli aperitivi.
Un anno dopo, Enza ricorda sul Quotidiano del Sud che nel giorno dell’elicottero la storia di Nicotera ha subìto una specie di cesura: “…il potere mafioso ha fatto uno scatto in avanti, mostrando quanto fosse pervasivo… L’arrendevolezza delle istituzioni comunali ha legittimato certe dinamiche: è bastato uno schiocco di dita e tutto l’apparato si è si è messo a disposizione delle esigenze delle famiglie Gallone e Spasari”. Come sia stato possibile lo racconta pochi mesi dopo la commissione prefettizia che esamina gli atti del Comune di Nicotera, avviato al terzo scioglimento per la terza volta in quasi due lustri. Ma prima Enza paga un doloroso pedaggio per il lavoro fatto. Il sindaco, senza nominarla, le rivolge in consiglio comunale apprezzamenti sul suo aspetto fisico, un assessore si lascia andare a veri e propri insulti. Enza capisce l’antifona e va dai carabinieri. Si tratta di attacchiche fanno leva sulla reputazione civica che avrebbe patito lesione, su virtù cittadine rispolverate contro il nemico (ovviamente presunto) che bussa alla porta a mezzo stampa.C’è chi mette il buon nome di Nicotera contro quello di una giornalista.Succedeva lo stesso con il film la Piovra,con le inchieste di Falcone e Borsellino e dei loro colleghi. L’onore di una comunità turbato da un articolo, da un fotogramma, da un atto d’accusa, da una sentenza. L’eterno alibi mafioso: così si macchia l’immagine di un quartiere, di una città, dell’intera nazione. Il corollario: la mafia è un’invenzione di chi ne parla.
Ma in questo caso c’è dell’altro. La giornalista non viene minacciata, ma attaccata in quanto donna. Se vi sembra poco, ricordate che la stessa cosa accadde a Daphne Caruana Galizia, la giornalista maltese assassinata con un’autobomba nell’ottobre del 2017. I suoi avversari la chiamavano “La strega”. Poco prima di morire, dichiarava in un’intervista:
“Quando parlo dei fattori primitivi della società maltese, penso alle donne. Alle donne giornaliste come me. E mi spiego. Sono abbastanza convinta che in altri Paesi europei le giornaliste vengano molestate persino di più di quanto avvenga a Malta. Ma qui la natura della molestia ha appunto un carattere primitivo. Ha sempre a che vedere con il tuo aspetto fisico…”. (il brano è tratto dal libro di Carlo Bonini “L’isola assassina”, 2018).
Enza Dell’Acqua non si è inventata nulla. Lo dice la commissione d’inchiesta che per qualche mese ha spulciato le carte a Nicotera. Il Comune, recita la relazione, presenta “forme di ingerenza della criminalità organizzata” che ne compromettono libertà d’azione e imparzialità, caratteristiche fondamentali della buona amministrazione. E poi ci sono gli amministratori, la cui immagine non appare specchiata. Il giudizio di una commissione di accesso è molto diverso da quello penale. Valuta condotte e responsabilità di altra natura, magari questioni di opportunità. L’obiettivo è chiarire se l’amministrazione funzioni in modo trasparente e neutrale. Al sindaco Pagano, ad esempio, nessuno contesta azioni di rilievo penale, ma fa l’avvocato e, a mandato in corso, ha difeso il capo di una delle diramazioni della famiglia Mancuso. Nella stessa causa il Comune avrebbe in teoria potuto costituirsi parte civile. Infine Pagano ha nominato personaggi con precedenti per traffico di stupefacenti e considerati legati ai clan nel consiglio d’amministrazione dell’opera pia Giuseppina Scardamaglia, che gestisce un asilo cittadino. Nella relazione c’è anche un accenno alla vicenda del 2016: lo sposo elitrasportato è “soggetto controindicato per le sue numerose frequentazioni con esponenti di spicco della consorteria locale (i Mancuso ndr)”.
Il giudizio sul vicesindaco, Francesco Mollese, è molto meno sfumato. Nel 79 è stato condannato in appello, con sentenza divenuta irrevocabile nell’82 (cinque anni di reclusione) “per estorsione continuata in concorso e porto illegale di armi continuato in concorso”. Nel ’92 viene denunciato a piede libero e, in concorso con altre due persone, per aver forzato la porta della sede locale del Psi, provvedendo poi a cambiare la serratura. La relazione d’accesso segnala anche contatti del Mollese con varie persone “gravate da precedenti penali e/o di polizia”, di questi, tre per associazione a delinquere di stampo mafioso. Tra le frequentazioni anche un nipote di Diego Mancuso, alias Mazzola, “esponente dell’omonima consorteria mafiosa”.
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