Nella guerra
al virus non tutti
hanno le armi giuste
Fidiamoci delle parole di Mario Draghi: «Di fronte a circostanze non previste, un cambio di mentalità è necessario in questa crisi come lo sarebbe in tempi di guerra. Lo shock che ci troviamo ad affrontare non è ciclico. La perdita di reddito non è colpa di chi la soffre. Il costo dell’esitazione potrebbe essere irreversibile. La memoria delle sofferenze degli europei negli anni 1920 sono un ammonimento». I riferimenti dell’ex presidente della Bce, che alcuni in Italia vorrebbero alla guida di un futuro governo per la ricostruzione, sono chiari: contro il Covid-19 si combatte una guerra, se non agiamo subito possiamo ripetere la grande depressione economica di un secolo fa, per evitare questa catastrofe è urgente cambiare mentalità. Se siamo in questa situazione, se viviamo un’economia di guerra, allora può essere interessante valutare quante sono le risorse finanziarie messe in campo dai principali Paesi occidentali investiti dalla pandemia, osservare le differenze qualitative degli interventi, la velocità di reazione dei governi, il ruolo dello Stato.
Negli Stati Uniti l’amministrazione di Donald Trump, con il pieno sostegno bipartisan di repubblicani e democratici, ha varato un primo programma di aiuti all’economia di 2000 miliardi di dollari. Assegni da 1200 dollari ciascuno saranno distribuiti direttamente a tutti i cittadini americani con un’integrazione di 500 dollari per ogni bambino. Altri 150 miliardi di dollari saranno destinati alle strutture sanitarie, mentre le piccole imprese potranno chiedere prestiti per complessivi 367 miliardi di dollari. Una parte dei fondi stanziati, inoltre, finirà direttamente nelle casse alle aziende più colpite dalle misure di contenimento e quarantena. Secondo le prime stime della crisi sarebbero oltre 3 milioni le persone disoccupate a causa dell’epidemia, ma la scossa potrebbe avere un impatto sociale ben superiore. Per far fronte all’emergenza, dopo l’azzeramento del costo del denaro e il quantitative easing messi in campo dalla Federal Reserve, Trump, che si gioca la Casa Bianca in questo anno di elezioni, ha rotto almeno con le parole il suo isolazionismo dichiarandosi pronto a cooperare con gli stati del G20 e ha pure telefonato al presidente cinese Xi Jinping assicurando di voler collaborare con Pechino per contrastare la diffusione del virus.
La polemica sui Coronabond
In Europa tocca alla Bce il compito più rilevante. Dopo le prime parole disastrose di Christine Lagarde, la Banca centrale ha preso una strada più chiara: non ha toccato i tassi ma ha iniettato liquidità oltre la soglia dei 1000 miliardi di euro con il suo piano di acquisti di titoli pubblici e privati. L’Unione Europea ha recuperato 37 miliardi dal suo modesto bilancio, ma si tratta di una cifra davvero inadeguata. Più importante e politicamente sensibile è la sospensione del Patto di Stabilità, e chissà se mai tornerà in vigore e con le stesse regole originarie. I Paesi dell’euro possono indebitarsi, senza rispettare tetti e vincoli, ma naturalmente il reperimento di capitali sui mercati ha un costo variabile in relazione alla credibilità finanziaria di ciascun Paese. Chi ha lo spread più alto paga di più.
La novità più interessante in Europa, mentre infuria la polemica tra chi chiede i coronabond (Italia e Spagna, in prima fila) e chi li rifiuta (Germania, Olanda e i rigoristi del Nord), è rappresentata dalla Germania. Il governo tedesco abbandona il mito del pareggio di bilancio in nome della difesa dell’economia. Berlino vara un piano di oltre 750 miliardi di euro. Di questi 400 miliardi sono garanzie sui crediti delle imprese, mentre 356 miliardi di euro (pari al 10% del Pil tedesco) comprendono stimoli fiscali per 156 miliardi e altri 200 miliardi per sostegni alle imprese attraverso la KfW, banca pubblica di investimento. In pratica il governo tedesco riempie le casse delle imprese in difficoltà, supera qualsiasi limite precedente, e ricalca il vecchio copione della crisi del sistema creditizio quando lo Stato aveva salvato molte banche, soprattutto le piccole e locali Sparkassen e Landesbanken. Aiuti di Stato e nazionalizzazioni sono dunque le armi decisive del piano tedesco. Berlino vuole tutelare le imprese nazionali, soprattutto quelle più importanti, dall’aggressione di eventuali malintenzionati stranieri attratti dal crollo dei corsi di Borsa. Un ragionamento che può benissimo essere condiviso anche dall’Italia e da altri partners europei.
La Francia gioca in tono minore, ha finora deciso un piano di interventi economici che vale la metà di quello tedesco, circa 350 miliardi di euro, di cui 300 sono garanzie sui crediti delle imprese, mentre il resto è rappresentato da sgravi fiscali finalizzati a difendere l’occupazione e i salari. Il presidente Macron, accusato di aver sottovalutato la pandemia e di aver reagito in ritardo, ha sostenuto la posizione di Italia e Spagna per il progetto dei coronabond. La Spagna è con l’Italia il Paese più colpito dal Covid-19. Madrid ha varato interventi per 130 miliardi, la parte principale (100 miliardi) come garanzie ai crediti delle imprese, il resto suddiviso tra aiuti fiscali a imprese e famiglie e sostegno al sistema sanitario.
Cifre modeste
L’Italia ha messo in campo due interventi. Il primo decreto del governo Conte è di 25 miliardi, per coprire le necessità più urgenti di imprese, lavoro, sistema sanitario. Un altro decreto per circa 30 miliardi è atteso in aprile. Le cifre sono modeste se paragonate ad altri Paesi e di fronte agli effetti del Coronavirus che saranno profondi, prolungati nel tempo, per imprese, famiglie, comunità. Le difficoltà del governo italiano sono confermate dal caso dei 400 milioni destinati all’emergenza alimentare, una cifra davvero troppo modesta in questo frangente (come se non bastasse, alle difficoltà s’è aggiunto il clamoroso fiasco dell’INPS, il cui sistema informatico è “scoppiato” proprio nel momento in cui arrivavano le richieste per i contributi) . Se non ci saranno strumenti eccezionali, con garanzie comunitarie, l’Italia può solo ricorrere a nuovo debito. Il nostro debito pubblico è superiore ai 2400 miliardi di euro, un’ulteriore crescita potrebbe portare il rapporto debito-Pil da 130 a 140 o ancora più su. La strada è stretta. E a proposito di solidarietà europea e di responsabilità italiana vale la pena di citare uno studio riportato da Ferruccio de Bortoli sul Corriere della Sera, si tratta di The missing profits of nations, i profitti mancati delle nazioni, pubblicato da National bureau of research di Cambridge. Il nostro Paese perde ogni anno circa 20 miliardi di euro di imponibile sui profitti realizzati da multinazionali italiane con sedi in paradisi fiscali, di cui 17 in Paesi europei. Quelle imprese che vanno ad Amsterdam, Londra, Dublino, Lussemburgo in cerca di una presunta modernità privano il Paese di risorse che oggi sarebbero importanti.
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