Nella Cuba del dopo Fidel
Sognando un nuovo inizio

Sono seduto al bar “El Louvre”, davanti all’hotel Inglaterra. Siamo al centro de L’Avana, sul Paseo del Prado. É il primo giorno di un viaggio a Cuba, immersi in un caldo afoso. Un’orchestrina di musicanti, travestiti con costumi d’epoca, suona ritmi indiavolati, qualche salsa scalpitante, Besame MuchoLacrimas Negras. E poi, quasi con una fitta al cuore per il sottoscritto, i versi di un antico ricordo dedicato al Che “de tu querida presencia”. Ma nessuno si commuove. Tutto si mescola, tra fantasmi e realtà, mentre la piccola folla, in gran parte turisti, sorseggia Daiquiri e birre. 

Disincanto

E’ la Cuba un po’ disincantata del 2019. Sarebbe bello avere a questo tavolo alcuni dei tanti corrispondenti del mio antico giornale, “l’Unitá”, che si sono avvicendati negli anni quaggiù. Mi tornano alla memoria i nomi di Saverio Tutino, Guido Vicario, Massimo Cavallini, Nuccio Ciconte, Giorgio Oldrini… Loro potrebbero raccontarmi che cosa è cambiato, che cosa è rimasto dopo la scomparsa di Fidel Castro, la caduta del socialismo “irreale” sovietico con connesso aiuto all’isola.

Io posso solo tentare di rievocare un altro viaggio a Cuba, negli anni 70, con “Unità vacanze”, una specie di agenzia di viaggi. Una missione ufficiale di cui ricordo ben poco, se non l’atmosfera “rivoluzionaria”. Ecco quella atmosfera ora non la ritrovo. Nemmeno il 26 luglio, giornata di festa nazionale dedicata all’attacco al Quarter (Caserma) Moncada, nel1953, ad opera di un gruppo di rivoluzionari che intendevano rovesciare il sistema dittatoriale di Fulgenzio Batista. Niente sembra rievocare quel giorno. La memoria del passato risalta solo nei cartelloni un po’ stinti che riportano le parole del Che, di Fidel, di Martì. Un riferimento forse a un dibattito interno ci colpisce a Cienfuegos dove un murale enorme spiega appunto che quelli di Cienfuegos “non hanno dubbi”. Il che lascia capire che altri, nel partito, nel governo, hanno dubbi sul da farsi.

Fame di turisti

Perché tutti, nelle brevi conversazioni, ci raccontano di una crisi in corso. Testimoniata, se non altro, dai supermercati spesso con scaffali semivuoti. Questa volta il mio viaggio è stato organizzato “dal basso”. Ho prenotato on line volo aereo, alloggi, ovvero le cosiddette “case particular” offerte da famiglie cubane, taxi collettivi per i tragitti da L’Avana a Trinidad, a Cienfuegos, a Varadero. Ho scoperto così che esistono prime forme efficienti di attività private. Tutti però si affrettano a dirmi che c’è una gran fame di turisti. Avevano salutato con gioia le aperture di Obama e l’arrivo di tanti americani carichi di dollari. Ma poi Trump ha chiuso i rubinetti. Secondo il governo cubano i turisti in ingresso per l’anno in corso sono calati da 5 milioni a 4 milioni e trecentomila unità. E il governo sembra stentare a trovare qualche strada per riformare l’esperimento socialista e ridare fiato all’economia.

Un popolo che resiste

Certo l’impressione è quella di un popolo che resiste, che si arrangia. Come quelle centinaia di ragazze e ragazzi che con le proprie gambe a L’Avana, ma anche a Trinidad, a Cienfuegos, a Varadero, trascinano per pochi Cuc (la moneta che equivale agli Euro) esili carretti con a bordo frotte di turisti. Come quelle masse di ragazze e ragazzi, che troviamo sulle spiagge di Santa Maria, a pochi chilometri da L’Avana, o sulla spiaggia di Ranchio Luna (Cienfuegos) o di Playa Ancòn di Trinidad, o su quelle immense di Varadero. Una gioventù che si aggira spesso trascinando, oltre ai diffusi smartphone, enormi cassoni neri radiofonici. La salsa regna sovrana. Quasi tutti però abbandonano capanne e lettini per rimanere ore ed ore in acqua magari passandosi thermos ripieni di rum, bevanda nazionale.

No, non c’è la rabbia, la disperazione anche se è facile annotare, specie nelle grandi città, le diseguaglianze tra chi ha risalito la scala sociale e chi no. C’è chi mi spiega che a qualcosa serve “la Libreta”, una specie di tessera annonaria che offre generi di prima necessità. Come da noi in tempo di guerra. Altri cercano di allestire una soluzione. Come quel giovane che a Varadero nel cortile di casa costruiva con le proprie mani una macchina, una Triumph. A dicembre sarebbe stata pronta e sarebbe stata una fonte di guadagno. Altri lamentano i salari bassi e verrebbe da chiedersi che fa il sindacato, che ruolo hanno i lavoratori o se anche qui tutto è delegato al partito e il socialismo riguarda solo i mezzi di produzione.

Certo Trump si da da fare. Ha chiuso l’ambasciata Usa a L’Avana, ha sospeso i viaggi delle navi da crociera, persegue le navi cisterna che portano petrolio a Cuba. Chiede, dicono i governanti cubani, che Cuba ritiri i suoi circa 20 mila collaboratori della salute, l’educazione, l’agricoltura, che realizzano missioni internazionaliste in Venezuela.

La transizione

Fatto sta che, come ha scritto Massimo Cavallini, in un articolo su strisciarossa  “il cambio della guardia post-castrista, proprio questo sta in realtà vivendo: una transizione la cui profondità è estremamente arduo sondare… Come si sta muovendo, dietro l’ossificata realtà del cerimoniale rivoluzionario, la società cubana? Qui tutto appare più ambiguo ed indecifrabile. Perché la Cuba nella quale si va realizzando – all’insegna del rifiuto d’ogni transizione – il cambio della guardia post-castrista, proprio questo sta in realtà vivendo: una transizione la cui profondità è estremamente arduo sondare”.

Un giudizio severo. Abbiamo letto sul “Granma” (organo ufficiale del partito cubano) critiche sul sistema agricolo “Ci sono produttori che ottengono solo una o due tonnellate di mais per ettaro mentre altri ne ottengono sei, otto e anche dieci…segnalando le reali possibilità di crescere realizzando uno sforzo”. E in effetti gran parte dei vasti territori dell’isola appaiono al viaggiatore assai poco sfruttati.

Il timore, come ha spiegato sulla rivista Usa liberal-progressista “Dissent” Andrés Pertierra, in un articolo ripreso da “Internazionale” , è quello di ritornare, come ha detto il nuovo presidente Diaz-Canel, ai momenti drammatici del cosiddetto “periodo speciale”, quello venutosi a creare nel 1991 dopo la dissoluzione dell’Urss e che aveva provocato una caduta di circa il 30% del Pil di Cuba.

Sempre secondo l’analisi di Pertierra “il governo cubano ha molte sfide di fronte a sé. Ha perso per sempre il monopolio dell’informazione, dato che internet e un sistema di distribuzione dei media digitali semilegale, noto come “el paquete” (il pacchetto), stanno inondando il mercato dei mezzi d’informazione cubani. I risultati ottenuti dalla rivoluzione, soprattutto nell’istruzione e nella sanità, stanno lentamente implodendo perché da decenni sono gestiti con bilanci ridotti all’’osso”.

Eppure secondo Pertierra ci sarebbe una via d’uscita: “il governo potrebbe autorizzare l’elezione diretta dei dirigenti politici; potrebbe rafforzare le assemblee nazionali e provinciali, mantenendole in attività per più tempo rispetto a due brevi momenti di ogni anno; potrebbe rafforzare il sindacato centrale dei lavoratori di Cuba in modo che i lavoratori ne siano effettivamente a capo e difendano i propri interessi attraverso di esso”. Ma Miguel Díaz-Canel, il successore di Fidel, ha la forza, per far questo? Per dare nuove gambe al socialismo, per convincere i dubbiosi di Cienfuegos? Sono certo di una cosa: che quelle masse di ragazze e ragazzi cubani visti sulle spiagge agostane lo seguirebbero. Per impedire che Cuba sparisca.