Nella contesa Nordstream
il vero problema
è la Nato in crisi
“Un paio di mesi fa Biden diceva che Putin era un ‘killer’; ora sta facendo in modo di assicurare a lui e ai suoi complici considerevoli vantaggi strategici in Europa”. Così parlò Ben Sasse, senatore repubblicano del Nebraska che – dice lui stesso nel suo profilo social – “non vuole certo restare confinato nel suo stato d’origine”. Insomma: ha ambizioni e voglia di scalare il potere. La colpa del capo della Casa Bianca agli occhi di Sasse consisterebbe nell’intenzione (che per ora gli viene attribuita senza riscontri di alcun tipo) di eliminare le sanzioni contro le imprese europee che partecipano alla realizzazione di Nordstream, il gasdotto che passando sotto il Baltico dovrebbe portare direttamente in Germania, e da qui nel resto dell’Europa occidentale, il gas della Russia. A parere del patriottico repubblicano questa intenzione sarebbe se non un tradimento almeno una grave sottovalutazione degli interessi della politica estera americana ma anche (o forse dal suo punto di vista soprattutto) un tradimento degli interessi di bottega del Nebraska, stato che punta molto sulla prospettiva di esportare anche in Europa il gas prodotto, laggiù, con il metodo del fracking e vede perciò come il fumo negli occhi l’aumento della concorrenza russa sul ghiotto mercato europeo.

Si tratta, comunque, di una polemica prematura, perché finora non c’è alcuna conferma di un cambio di atteggiamento dell’amministrazione di Washington sulle sanzioni, e che potrebbe sembrare anche abbastanza marginale. Invece non lo è affatto, giacché il dossier Nordstream gioca un ruolo essenziale nella definizione dei rapporti tra gli Stati Uniti, l’Europa e la Russia ed è perciò molto significativo se, come e quanto l’amministrazione Biden cambierà rispetto alle politiche seguite dalle amministrazioni precedenti, non solo, com’è scontato quella di Donald Trump, ma pure quelle precedenti, anche democratiche.
Pressioni americane, incertezze tedesche
La questione del gasdotto e degli interessi politici, strategici ed economici che le ruotano intorno è molto complessa. I protagonisti principali della vertenza che sono, a parte ovviamente i russi, gli americani e i tedeschi, semplificando come si usa in politica, la presentano così: i primi sostengono che una linea di rifornimento diretta di una quantità di gas russo che coprirebbe una parte importante dei fabbisogni dell’Europa centro-occidentale metterebbe nelle mani di Mosca un’arma di possibile ricatto o quanto meno di condizionamento nei confronti dei paesi destinatari. Sarebbe insomma un potente fattore di decoupling, differenziazione degli interessi nell’ambito dell’alleanza occidentale. I tedeschi, che aderirono al progetto in tempi in cui le relazioni con i russi erano molto meno tese e problematiche di oggi e il Cremlino ai vertici di Gazprom aveva addirittura cooptato un ex cancelliere tedesco, il socialdemocratico Gerhard Schröder, sono molto meno convinti d’un tempo ora che i rapporti politici sono diventati ben più freddi dopo l’annessione della Crimea, la guerra del Donbass, il caso Naval’nyj e le ripetute prove di ingerenze e vere e proprie aggressioni telematiche nei paesi occidentali. Ma, pur se, anche per le pressioni USA, i lavori sono stati per il momento congelati a pochi passi dalla fine, i dirigenti di Berlino sono quanto meno divisi: i socialdemocratici sono per il completamento del progetto, i Verdi, soprattutto dopo l’inasprimento delle repressioni della dissidenza russa segnate dal caso Naval’nyj, sono contrari in nome della salvaguardia dei diritti umani, la cancelliera Merkel resta fedele all’impegno del contratto ma intanto la sua ex delfina e fedelissima Annegret Kramp-Karrenbauer ammette pubblicamente, come ha fatto pochi giorni fa, di non essere proprio sicura al cento per cento che il gasdotto verrà messo in funzione e che si può in ogni caso ipotizzare anche un suo utilizzo soltanto parziale.

Fatti salvi i recenti tentennamenti di Berlino, si può dire comunque che nelle grandi linee lo scontro sul Nordstream è stato, almeno in passato, lo scontro tra le due filosofie alternative che caratterizzano fin dai tempi della guerra fredda i rapporti dell’occidente con Mosca e che hanno continuato a vivere anche dopo la fine del comunismo: il containment da una parte e il dialogo dialettico dall’altra. I progressivi irrigidimenti del regime di Putin hanno finito per mettere in crisi il secondo approccio.
Una differenza di fondo
Arriverà il giorno in cui al di qua della fu cortina di ferro ci si dovrà domandare quanta responsabilità abbiano avuto gli occidentali nella creazione e nel rafforzamento della sciagurata politica “imperiale” del capo del Cremlino, ma per ora non c’è da far altro che constatare che la differenza di fondo rimane. L’atteggiamento assunto dal nuovo presidente americano nei mesi scorsi, fino all’epiteto di “assassino” riservato a “zar Vladimir”, ha fatto pensare finora che la linea di intransigenza, la quale peraltro un po’ paradossalmente è stata propria più dei democratici che dei repubblicani, continuasse a prevalere. Se i sospetti del senatore del Nebraska avessero qualche fondamento, si dovrebbe pensare all’imminenza di un significativo cambio di atteggiamento dell’amministrazione USA che aprirebbe a novità che vanno ben al di là della questione del Nordstream.
Ma per avere la percezione della natura dei problemi e delle contraddizioni che la (possibile) nuova sistemazione dei rapporti tra l’amministrazione americana e l’Europa lascia sul campo sarà bene considerare due aspetti che riguardano, ambedue, la NATO.
Il primo. Guardando la carta geografica si coglie immediatamente il fatto che il gasdotto controverso parte da Vyborg, in quella piccola striscia costiera russa che è stretta tra la Finlandia e l’Estonia e per i suoi 1200 chilometri di lunghezza fino al golfo di Greifswald nella Pomerania tedesca si sviluppa tutto sul fondo del Mar Baltico evitando accuratamente (“provocatoriamente”, verrebbe quasi da dire) le Repubbliche baltiche, la Bielorussia, la Polonia e l’Ucraina. Il suo percorso è una specie di manifesto politico: nessuno dei paesi che si trovano tra la Russia e l’Europa centrale e occidentale ha la possibilità né di gestirne parti, né di rivendicare diritti, né di minacciare, semmai avesse motivo di farlo, l’interruzione del flusso del gas. È l’unico fra i gasdotti che partono dalla Russia ad avere questa caratteristica. Ciò costituisce un problema politico che finisce per riguardare la NATO: i paesi baltici e soprattutto la Polonia, ma anche più a sud l’Ucraina e un domani potenzialmente una Bielorussia sottratta all’influenza di Mosca non soltanto si vedono privati di un’arma potenziale da usare contro il potente (e prepotente) vicino dell’est, ma hanno buone ragioni per sentire indebolito il loro ruolo nella rete strategica che la NATO negli anni successivi alla caduta del Muro di Berlino ha intrecciato sui confini occidentali della Federazione russa. E che – sia detto per inciso – è uno dei motivi che hanno esaltato le paure e i revanscismi che hanno alimentato lo strapotere di Putin. È realistico pensare che almeno una parte delle remore politiche americane nei confronti di Nordstream alberghino, più che a Washington, a Varsavia, a Tallinn, a Riga, a Vilnius o magari a Kiev.
Il “disegno ottomano” di Erdoğan
Ma c’è un altro fattore che intreccia la questione del gasdotto del Baltico alla NATO e si trova molto più a sud, dove si dipana il “gemello” del Nordstream che passando sotto il Mar Nero e l’Anatolia arriva fin da noi con il nome, che forse qualche cinquestelle ricorderà con qualche amarezza, di TAP. Giorni fa mi è capitato di vedere in televisione un’ottima scheda geopolitica sulla Turchia perfetta in ogni sua parte salvo che per un’omissione. I redattori della scheda hanno dimenticato di ricordare che la Turchia fa parte della NATO. Ne fa tanto parte che nell’alleanza il suo esercito di terra è secondo per numero di soldati solo a quello degli Stati Uniti.

Se si considerano le mosse politiche di Ankara da quando è al potere Recep Tayyn Erdoğan si può capire come possa capitare che ci si dimentichi che la Turchia è un paese alleato di Washington, Roma, Parigi, Londra, Berlino e via elencando le capitali del nostro mondo e firmatario di un Trattato che all’articolo 5 obbliga tutti i paesi dell’alleanza a scendere in guerra se uno di essi viene aggredito. Per paradosso, quando Erdoğan fece entrare i suoi soldati in Siria avrebbe potuto chiedere agli alleati di intervenire anch’essi giacché – sosteneva – si trattava di una guerra di difesa contro i curdi…
Quasi nessuno ne parla, e a Washington e a Bruxelles meno che altrove, ma uno dei fattori di destabilizzazione più formidabili nel Medio Oriente è proprio il proposito degli attuali dirigenti di Ankara di far rivivere in un sistema di alleanze politico-militari l’area dell’antico potere ottomano e di definirne il sistema di relazioni con la Russia in un gioco di alleanze, scontri e prove di potere di sapore ottocentesco traslocato nel tempo delle armi di distruzione di massa. Così abbiamo assistito allo sconcertante spettacolo di un Erdoğan che prendeva le difese di Hamas che tempestava di missili le città israeliane con l’evidente intenzione di “islamizzare” il conflitto ritagliandoci dentro un ruolo per sé mentre il presidente del paese guida dell’alleanza di cui fa parte difendeva i bombardamenti israeliani su Gaza e non riusciva a prendere le distanze dalle inaccettabili provocazioni di Netanyahu a Gerusalemme est.
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