Nel sacrificio di Jan Palach morì l’illusione
della riformabilità del comunismo
Chissà se era veramente malato Alexander Dubček mentre Jan Palach veniva portato all’ospedale dell’università carolina e poi moriva d’un’agonia cosciente, dolorosissima e senza speranza. Lui, il ragazzo, avrebbe voluto saperlo. Questo è certo perché tutte le testimonianze dicono che per tutti e tre i giorni che passò su quel letto a morire, dal 16 al 19 gennaio 1969, continuò a chiedere ossessivamente che cosa succedeva fuori, nella sua Praga, nel suo paese. Se la gente aveva reagito, se si parlava del suo gesto, se avevano letto la lettera in cui spiegava l’inspiegabile perché che lo aveva portato a fare come Thích Quảng Đức, il bonzo che s’era dato fuoco dall’altra parte del mondo, contro un altro oppressore. Lontananza di luoghi, lontananza di culture. Lontananza nella storia: nel 1411, condannato dal Concilio di Costanza, un altro Jan, il rettore della sua università carolina Jan Hus, era morto tra le fiamme del rogo perché si era ribellato anch’egli a una intollerabile oppressione, il fanatismo delle gerarchie cattoliche.
Forse non tutti lo sanno, o non ci badano, ma Dubček quando quel ragazzo si dette fuoco e morì, nel pieno dell’era della “normalizzazione”, era ancora il segretario generale del partito comunista cecoslovacco. Aveva perso molta parte del proprio potere, ma era ancora la personalità politica più importante del paese. La primavera di Praga era morta nel caldo 21 agosto 1968 dell’invasione e lui era stato portato a Mosca ad abiurare. L’aveva fatto, per evitare al suo popolo disgrazie ancora più gravi e poi le vicissitudini della normalizace avevano suggerito al Grande Fratello di Mosca di lasciarlo, sorvegliato speciale, al suo posto ancora all’inizio del 1969. Sarebbe stato rimosso solo in aprile, mandato ambasciatore in Turchia e poi a fare l’operaio in fabbrica, come si trattavano i dissidenti con un nome conosciuto nell’Europa del cosiddetto “socialismo reale”. Quindi quel 16 gennaio l’eroe sconfitto della primavera era ancora al suo posto di capo. Però non si vide. Non fece nulla. Era malato, trapelò dai suoi uffici. Questo non gli salvò il posto perché proprio la sua assenza nei giorni che seguirono, pieni di fatti, come vedremo, sarebbe stato il motivo ufficiale del suo definitivo siluramento poche settimane dopo.

Forse non avrebbe potuto far nulla, Dubček, e la sua prudenza fu un atto di responsabilità. E però si sarebbe potuto immaginare un altro svolgimento dei fatti: il capo del partito, reietto ma ancora al comando, va in televisione, parla, poi si reca al capezzale di Palach. Non lo giustifica, no. Neppure la chiesa cattolica perdona i suicidi, anche se il vescovo di Praga proprio parlando di Palach dirà che a certe condizioni, se il gesto è motivato come lo fu il suo, l’assoluzione è possibile. Però gli mostra pietà, ascolta le sue parole, le sue impossibili spiegazioni. Sa che poi verrà punito per questo, che lo cacceranno, ma sa anche che si tratta soltanto di accelerare d’un po’ i tempi di quel che comunque è già scritto che avvenga.
Quell’incontro non ci fu e questo svolgersi delle due vicende umane in universi separati fu il segno d’una doppia sconfitta. Da una parte la sconfitta del sogno, razionale, non utopico, che aveva animato la primavera di Praga, il tentativo di mostrare al mondo, ai popoli ceco e slovacco e a se stessi, i comunisti, che il socialismo poteva essere diverso, più democratico, più libero, più “umano” come si diceva che fosse diventato il suo volto a Praga, più gentile. Dall’altra parte la sconfitta della misura umana dell’impegno, della politica nella radicalità dei princìpi, quella in cui la lotta per la libertà portata alle sue conseguenze estreme non porta la vita ma la morte. Fu un gesto di eroico altruismo quello di immolarsi come esempio, come monito. Ma non c’è un alito di fanatismo nelle parole che il giovane Palach lasciò scritte come testamento sul suo diario nella borsa lanciata lontano dalle fiamme, perché le si potesse leggere dopo il suo sacrificio? “Io sono la prima torcia”, aveva scritto, a me è toccato questo onore ed altri seguiranno. E almeno uno a Praga lo seguì davvero, pochi giorni dopo: Jan Zajìc, che morì sulla soglia del portone di casa, prima di riuscire ad offrire il suo sacrificio al pubblico della strada. E diversi altri, per settimane e per mesi, in altri paesi sottoposti al giogo sovietico, dall’Ungheria alle regioni del Baltico. Non avrebbero potuto incontrarsi la ragionevolezza di chi s’era convinto che il comunismo fosse riformabile e l’intransigenza di chi credeva che le libertà personali fossero un bene mai negoziabile in quella società, con quegli assetti di potere?
La mancanza d’una risposta a questa domanda ha caratterizzato nella metà “sbagliata” dell’Europa la storia del Novecento. E lo ha fatto in modo più evidente e drammatico proprio in Cecoslovacchia, negli anni che vanno dalla Primavera alla Normalizzazione alla Rivoluzione di velluto che liquidò il comunismo e l’appartenenza all’impero sovietico dopo la caduta del Muro di Berlino. La liberalizzazione impersonata da quel segretario del partito slovacco, coi tratti del provinciale un po’ spaesato a Praga, “l’antica capitale” gonfia di storia; le fughe in avanti degli intellettuali, dei professori e degli studenti delle università; i primi contrasti – negati, minimizzati – con la massima nomenklatura di Mosca; la ricerca di sponde con i partiti “fratelli” in occidente, primo fra tutti il partito comunista italiano; il Manifesto delle Duemila Parole di Ludvik Vaculik, giornalista coraggioso ma non abbastanza da chiamare con nome e cognome il “paese alleato” cui bisognava parlar chiaro (paese alleato che le allusioni le capiva eccome, tanto che gli storici dicono che fu proprio la pubblicazione del Manifesto, a fine giugno del ‘68, a far pendere al Cremlino il pendono della bilancia verso l’intervento armato). E poi l’invasione delle truppe del Patto di Varsavia, i russi non più fratelli, gli ungheresi, i polacchi. E i tedeschi della DDR, che entrarono nel paese per le stesse strade che trent’anni prima avevano percorso i soldati con la croce uncinata; la resistenza passiva, le discussioni con i soldati sui carri armati, lo stupore imbambolato dei soldati dell’Armata Rossa dei reparti dell’Asia Centrale sotto le volte inimmaginate della cattedrale di San Vito, quegli ori, quelle ricchezze così “europee”. Poi ci furono gli anni della normalizzazione, termine che in tutto il mondo proprio allora assunse il valore semantico negativo di un ritorno indietro da una cosa bella verso una cosa brutta che ha ancor oggi nel parlar di politica.
Quando Jan Palach, vent’anni e mezzo, studente di lettere all’università carolina, maturava la decisione del martirio la normalizzazione soffocava il paese da quattro mesi che agli occhi di quel ragazzo e dei suoi compagni dovevano sembrare un’eternità. Una malata sospensione del tempo che pareva si potesse rompere solo col gesto più disperato che si potesse immaginare. Non si sa quanto fossero fondate le affermazioni di Jan, contenute nella lettera-testamento, sull’esistenza di un’organizzazione vera e propria di resistenza, con altri ragazzi pronti a farsi martiri. Uno esisteva davvero, il giovane Zajìc, di altri la polizia del regime, dopo il fatto, negò l’esistenza per accreditare la tesi del gesto isolato di uno squilibrato, un caso da psichiatra, una personalità debole, condizionata da cattive amicizie, cattive letture, cattiva propaganda occidentale.
Un vero gruppo di resistenza forse non c’era, ma l’effetto politico del rogo acceso sotto le scale del Museo Nazionale sulla piazza San Venceslao, il centro del centro di Praga pieno di gente cui il giovane correndo con le fiamme su tutto il corpo gridava di prendere la borsa, leggere la lettera, quello sì, ci fu e fu enorme. La cappa di silenzio imposto dai nuovi capi del paese e che si cominciava a considerare con la rassegnazione verso i mali inevitabili d’improvviso si ruppe. L’agenzia di stampa ufficiale pubblicò solo un flash su un certo studente d’università J. P. che per ragioni sconosciute si era dato fuoco in centro. Ma quel che era successo nella Vaclavske Namesti lo seppe, in poche ore, tutta la città. Il giorno dopo la camera ardente allestita dai compagni di Jan e dai suoi professori all’università, e che le autorità di polizia non ebbero il coraggio di impedire, fu visitata da un fiume di gente: 350 mila persone fino al 24 gennaio. Ai funerali, il 25, c’era con gli studenti l’intero corpo accademico e il rettore dell’università e il rettore concluse il suo discorso di commiato con parole di sfida aperta: “La Cecoslovacchia avrà la democrazia quando non ci sarà più bisogno di sacrifici come questo”. Ad ascoltarlo c’erano più di mezzo milione di cittadini, venuti da tutto il paese: una manifestazione così grande a Praga non s’era mai vista. E neppure tanto coraggio civile di massa. Cortei e celebrazioni ci furono in tutte le città e sembrò che il regime avesse cominciato a vacillare, che forse stesse arrivando la rivincita di Dubček. Se lui si fosse mosso…
Non accadde. Il nome di Jan Palach entrò subito nella Storia fuori della Cecoslovacchia, ma rimase nel paese una nota triste, un imbarazzo, un inciampo, qualcosa che non si poteva negare fosse avvenuto ma di cui parlare poteva essere pericoloso, un tabù nella vita pubblica e nei riti ufficiali del potere. Perfino gli intellettuali che otto anni dopo daranno vita a Charta 77, Vaclav Havel, Jiři Hajek, Jan Patočka, Zdeněk Mlynář, Pavel Kohout manterranno un filo di reticente prudenza verso il mito del ragazzo che si era dato fuoco. Troppo passionale, troppo irrazionale quel gesto per degli uomini di cultura i quali predicavano che la libertà andasse cercata per le vie della ragione e dei costumi occidentali ed europei, riportando la Cechia e la Slovacchia in Europa, alla quale il suicidio come strumento politico è, fortunatamente, del tutto estraneo. I capi di Charta 77 furono quasi sorpresi quando, dopo la caduta del Muro di Berlino, furono gli studenti a far precipitare la crisi definitiva del regime e lo fecero scendendo per le strade cantando “We shall overcome” e gridando proprio il nome di Jan Palach. Loro avevano immaginato un passaggio di regime diverso, graduale, politicamente governato, e a quello stavano lavorando. La rivoluzione di velluto fu essenzialmente, almeno all’inizio, un’impresa giovanile, partì dall’università di Carlo, quella dove aveva studiato Jan, i cortei percorsero le stesse strade e il centro della rivolta fu piazza San Venceslao, dove la polizia oppose all’insurrezione le ultime violenze il 17 novembre dell’89 e poi, simbolicamente, si arrese, come avevano fatto i Vopos ai varchi del Muro a Berlino una settimana prima.
Sarebbe toccato all’intelligenza politica di Vaclav Havel ricollocare il mito di Jan Palach al posto giusto nella coscienza nazionale del paese che si ritrovava libero e sovrano. Lo fece da presidente della Repubblica. Il 19 gennaio dell’89 era stato arrestato, per l’ultima volta, per aver deposto dei fiori sul luogo del sacrificio. Da presidente, un anno dopo, inaugurò il monumento a Jan Palach e allo sfortunato Jan Zajìc.
Di questi tempi in Cechia e in Slovacchia, contro la cui separazione si era tenacemente battuto, di Havel si parla poco perché il suo messaggio politico, di apertura, di tolleranza, di amore per l’Europa e di ammirazione per la sua costruzione non va proprio di moda. Di Dubček, poi, si cerca di non parlare affatto. L’idea che il comunismo fosse riformabile non ha diritto di cittadinanza neppure sui libri di storia e all’eroe della Primavera non si perdona l’ultimo atto pubblico: il rifiuto di firmare, da presidente dell’assemblea federale, la legge che metteva alla gogna tutti quelli che si erano compromessi con la dittatura, anche i dissidenti che si erano battuti per la democratizzazione. Non un sano conto da fare con la Storia ma una vendetta politica da esercitare nel presente. Jan Palach è tornato ad essere un eroe nel cupo pantheon del sovranismo cèco e della “democrazia illiberale” negli altri paesi del gruppo di Visegrád, paesi che hanno bisogno di eroi. Che il culto della sua memoria sia coerente, in quella parte d’Europa, con l’ossessione per la libertà che lo spinse al sacrificio è molto dubbio.
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