Nel Pd troppi tatticismi:
un compito non facile
per Zingaretti o altri
Non serve ritrovarsi tra le pagine del romanzo di Saramago “Saggio sulla lucidità” per catapultarsi in un paese nel quale la stragrande maggioranza dei votanti decide di non scegliere, decide di votare scheda bianca: è accaduto, sta accadendo, alla sinistra italiana. I motivi sono difficili da individuare con facilità sebbene due elementi “macro”siano facilmente delineabili: la storica incapacità di rimanere uniti, di superare le divisioni, spesso minime e dall’altra parte il depauperamento di una stabilità ideologica forte in grado di assumere un preciso ruolo di collante nelle situazioni di mancata omogeneità.
Così in un momento nel quale un governo si basa non su una alleanza sancita nelle urne, ma su un puro contratto, con vincoli da “partito azienda” piuttosto che da partito tradizionale o da anti-politica, nonostante questo ancora una visione collettiva antitetica stenta ad arrivare.
Nell’ultimo congresso del Partito Democratico la mozione guidata da Andrea Orlando aveva proposto una piattaforma programmatica, aveva sostanzialmente chiesto di definire i binari del percorso politico da intraprendere. Ma le cose non andarono bene.
Oggi quell’idea viene raccolta da Nicola Zingaretti: riportare quante più persone possibili all’interno di un percorso condiviso. Sembra semplice, quasi scontato. Ma in questo clima, da romanzo di Saramago per l’appunto, non lo è. Troppi tatticismi, troppe individualità: contraltare di un pensiero nel quale si decide di aiutare alcuni a discapito di altri, di considerare le persone diverse in base al luogo di nascita, al colore della pelle, alle opinioni, alla religione, e non piuttosto rispetto alla capacità di aiutare la crescita, lo sviluppo dei territori abitati.
«L’illuminismo moderno ci ha insegnato la reversibilità del processo di introiezione del sacrificio. Ci ha mostrato come realizzare il rovesciamento, passo dopo passo, e ha restituito la nostra vita alla sua cruda singolarità, priva di sacrificio, ma anche priva di un legame con il “Grande Tutto”, tramutatosi in un aggregato di mera volontà di vivere, precipitata in mezzo alle corazze di una ragione soggettiva che non accetta più alcuna imposizione e che tutto dall’esistenza pretende» scrive Peter Sloterdijk in “Critica della ragion cinica” (Raffaello Cortina Editore).
La grande sfida della politica italiana ritorna così essere un “noi” invece che tanti io, ritorna ad essere un interesse collettivo più importante che tanti piccoli interessi personali. Ne saremo capaci? Difficile dirlo, difficile capire se per un unire una parte di paese non più in dialogo se ne finirà per staccare un’altra (e anche quello sarebbe un errore, gravissimo) che con pochi punti percentuali cercherà di essere ago della bilancia come nemmeno nei più lontani ricordi da pentartito.
Intanto a noi cosa rimane in questa modalità di navi bloccate nel Mediterraneo, di Europa lontana dal popolo, di tutti a casa propria, di ciaoni, sorrisi, twitter, fette biscottate con la cioccolata spalmabile, divise diverse per ogni occasione, dirette facebook e immagini instagram? Rimane la sensazione che tutto questo dipenda anche dalla nostra incapacità di comprendere a pieno le urgenze, come quella appunto di attendere un anno per arrivare al congresso del Partito Democratico. E cosa saremo in futuro dipenderà anche dall’esito del 3 Marzo, e da come gestiremo questa e le successive fasi, un compito non semplice né per Zingaretti né per chiunque altro risulterà vincitore delle primarie. Perché ancora una volta se si deciderà di correre da soli, la strada sarà troppa e troppo in salita, ma se veramente e non solo a parole si riuscirà a dimostrare la concretezza di quel “prima le persone” che contraddistingue il governatore del Lazio allora forse sarà possibile ripartire con quella giusta dose di discontinuità che l’attuale clima complessivo necessariamente richiede.
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