Muore così il Museo
d’arte orientale
Il Museo Nazionale d’Arte Orientale di Palazzo Brancaccio a Roma chiude. Sessanta rulli di tamburo, un lancio di riso, la gente del quartiere che si raduna sotto l’austero ingresso: l’ultima protesta di un quartiere multietnico e multiculturale, che non è fatto solo di bancarelle o negozi di abbigliamento cinesi o di pietre dure, un quartiere dove è nata l’Orchestra di Piazza Vittorio, dove nelle scuole si pratica l’incontro culturale, dove il locale snob è a fianco del rigattiere, e che in quel Museo aveva la sua affermazione antica, la cultura “alta” di tante diversità.
Il ministro Franceschini ha deciso che questo museo se ne deve andare all’Eur. Un nuovo polo museale insieme al Pigorini e al Museo delle arti e delle tradizioni popolari. Intanto però gli antichi reperti che arrivano dalla Corea e dal Tibet, dallo Yemen e dall’Afghanistan, dall’Iran e dal Nepal, la collezione unica di Gandhara, le meraviglie della Cina, finiranno in casse e depositi. Si dice che la prima parte del nuovo museo aprirà forse nel ’19, fra due anni. Si dice, e qui ci si crede poco…
Non è servito a niente che il tribunale, che cura l’eredità della principessa Brancaccio, abbia abbassato l’affitto quasi della metà, a 400mila euro l’anno. Ormai la macchina del trasferimento è in moto: all’Eur l’affitto sarà molto più caro (i bene informati parlano di 750mila all’anno), ma finisce in tasche pubbliche, all’Inail. Come l’affitto degli altri due musei.
Sessanta rulli di tamburo, perché sono 60 anni che il museo è qua, in questo bel Palazzo di stile eclettico, dove passando dall’arte giapponese a quella islamica cambia anche l’architettura e la decorazione delle sale: istituto nel 1957 con Decreto del Presidente della Repubblica. E “sfatto con decreto ministeriale”, commentano grevi in piazza. “Dove troveranno mai all’Eur una sala come quella delle Cariatidi, scenografia unica per esporre la collezione di ceramiche e giade cinesi?”.
Il quartiere si sente scippato. Lo dice e lo scrive nel volantino che viene distribuito ai passanti: “Fermiamo un nuovo scippo per il quartiere Esquilino. L’insensato spostamento del Museo dell’Arte Orientale dalla sua sede storica, naturale, dal centro cioè di un quartiere multietnico segnati dalla forte presenza di comunità provenienti dall’Asia”. E pensare, dicono, che Franceschini abita pure da queste parti.
La storia del Museo si intreccia con la storia del Palazzo, i principi e i ricercatori, gli scavi archeologici e le donazioni, come la grandiosa eredità Giuseppe Tucci, l’esploratore che volle il museo e al quale nel 2005 lo stesso museo è stato dedicato.
Mentre rullano i tamburi e si prepara l’ultima visita guidata, alle cinque della sera, su wikipedia una mano informata ha già corretto il testo: “A seguito delle riforme volute dal ministro Dario Franceschini, il Museo ha perso l’autonomia ed è stato prima inserito, a partire dal marzo 2015, nel Polo museale del Lazio, e dal 1 settembre 2016 disciolto ed inglobato nel Museo delle Civiltà. Su disposizione del Direttore del Museo delle Civiltà, Filippo Maria Gambari, il Museo chiuderà i battenti al pubblico il 30 ottobre 2017”.
In realtà, oggi è il 31. Le sale si aprono per l’ultima volta. Poi tutto finirà nelle casse.
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