MeToo anni Trenta in salsa giallo-rosa. “Mon crime”, la migliore commedia dell’anno
Ci vuole bel garbo e intelligenza per sfoderare un film giallo-rosa perfidamente allegro e, trasportando il MeToo a metà anni Trenta, graffiare senza sconti la muffa del patriarcato e a un tempo sbeffeggiare populismo e facili indignazioni contro i perfidi maschi, celebrare il riscatto di una donna diabolicamente abile nel trasformare una menzogna in applausi e fare a tocchetti ogni esagerata ambizione di sorellanza femminile: sì, la sorellanza esiste, ma con le dovute, birichine eccezioni. Gli uomini? Elementari, prevedibili, un po’ fessacchiotti. “Mon crime. La colpevole sono io“, ispirato all’omonimo lavoro teatrale datato 1934 di Georges Berr e Louis Verneuil, già saccheggiato in un paio di trascurabili occasioni, è con distacco la miglior commedia dell’anno.
Sembra che François Ozon, regista cinquantacinquenne abituato a cavalcare tra i generi, abbia guadagnato negli anni una sempre maggiore, sapida levità di tocco. Pensare a Lubitsch in questo caso non è del tutto sacrilego e Ozon sembra richiedere la paterna benedizione di un altro gigante, Billy Wilder, evocato col suo film d’esordio del ’34, “Amore che redime”.
Lo vanno a vedere Madeleine Verdier (Nadia Tereszkiewicz) e Pauline Mauléon (Rebecca Marder), bionda appetitosa e aspirante attrice una, avvocatessa alle primissime armi l’altra. Hanno un certo bisogno di sognare davanti allo schermo, vivere a Parigi in un micro appartamento e col portafogli esausto è complesso, ci si può deprimere nonostante la fresca ala della giovinezza. Addirittura Madeleine vorrebbe suicidarsi con un revolver – ma più che altro fa finta, un paio d’inquadrature dopo sta già regolando i conti con una baguette burro e jambon blanc – quando rientra sconvolta dalla villona di un produttore dove sperava in una scrittura ma ottiene dall’antenato di Harvey Weinstein la proposta indecente di impiegarsi come amante e un sordido tentativo di stupro. Di lì a poco il porcellone verrà trovato morto, ucciso con una pistolettata alla testa, Madeleine non c’entra, ma è stata notata nei pressi della sua magione, figura tra i sospetti. Riceve così la visita dell’ispettore Brun (Règis Laspalès), non certo un segugio di razza, che però davanti al revolver della ragazza non può esimersi.
Il giudice istruttore Gustave Rabusset (Fabrice Luchini) gongola, ecco un caso bello facile. Di più, quando Madeleine apprende che potrebbe cavarsela con una pena mite, vista l’aggressione subita, genialmente si dichiara colpevole e prepara con il prezioso aiuto di Pauline un’autodifesa coi fiocchi al processo, quasi un’orazione ciceroniana destinata a travolgere i deliri imbevuti di grottesca misoginia del procuratore Maurice Vrai (Michel Fau). “Le donne uccidono, dobbiamo difenderci”, bofonchia la pubblica accusa, facile mandarlo al tappeto. Madeleine suscita applausi nell’uditorio, mescola la verità di una giovane donna costretta a nuotare controcorrente in una società maschilista e a subirne la violenza con la solenne bugia di un crimine per legittima difesa. Piange ed è così fragile e bella. Corte e giuria l’assolvono, è la svolta, la fama, i giornali se la contendono, diventa una vedette del cinema e del teatro. Un giorno però alla porta della lussuosa residenza in cui Madeleine vive con Pauline (certe tenere occhiate dell’avvocatessa suggeriscono una liaison tra le due ragazze o quantomeno un amore inconfessato/inconfessabile) chiede udienza la Verità.

Odette Chaumette (Isabelle Huppert) diva del muto dimenticata e astiosamente determinata a riprendersi ciò che è suo, rivela: “A uccidere il produttore sono stata io”. Vuole insomma la sua fetta di torta. Il plot si complica, lo scandalo viene evitato grazie ai buoni uffici dell’architetto Palmarède (Dani Boon), sembra un Ganimede, in realtà è un brav’uomo e sistema argutamente le cose con soddisfazione di Madeleine, del suo fidanzato tonterello André (Édouard Sulpice) figlio di monsieur Bonnard (André Dussolier) industriale degli pneumatici e, infine, di Odette. Il giudice Rabusset non avrà alcun problema, potrà star tranquillo, perché, dice, “i colpevoli che negano sono noiosi, ma gli innocenti che si accusano sono esasperanti”.
Tutto in “Mon Crime” è teatro, vive coi suoi ritmi, illusioni, colpi di scena, in una coralità attoriale felice nel dipingere una società e i suoi “campioni” delle svariate classi e tipologie sociali, dal bon vivant alla portinaia, la madame Jus di Myriam Boyer. L’eco di “La regola del gioco” (1939) di Renoir è schietta e sarebbe un punto d’onore anche solo sfiorare un tale capolavoro. Ozon in “Mon Crime” cavalca da maestro il divertito esprit parisienne esaltato dalle commedie di Sacha Guitry e chiude in brillante gloria la trilogia “femminista” iniziata nel 2002 con “8 donne e un mistero” e proseguita col più riuscito “Potiche-La bella statuina” del 2010, pure questo tratto da una pièce teatrale, protagonista Catherine Deneuve, moglie borghesissima di un capitano d’industria (Fabrice Luchini) pronta a trasformarsi all’occorrenza in dirigente e a gestire più d’una svolta esistenziale, mettendosi in saccoccia marito e amante (Gerard Depardieu). Il tutto glassato dall’occhio furbo e nostalgico di Ozon, tra profumi melò e cadenze eleganti da commedia classica. “Un giro di danza che guarda in macchina”, ha scritto Marzia Gandolfi.

Attenti però a circoscrivere troppo questo regista poliedrico, orgogliosamente gay. Ozon ha reso omaggio l’anno scorso a “Le lacrime amare di Petra von Kant” di Fassbinder con “Peter von Kant”, in uscita in Italia e, per rimanere a tempi recenti, ha raccontato nel drammatico “Estate ’85” del 2010 la passione straniante e potente tra due ragazzi, Alexis e David: un amor fou diventato amore vero, un’elegia nera per celebrare, nel finale, la corrente degli anni giovani che tutto trascina e porta avanti, verso nuove stagioni e nuove storie.
“Mon crime” è una partitura polistrumentale egregiamente orchestrata, forte di un cast lussuoso e ben illuminato. Isabelle Huppert carica le tinte della sua Odette, diva fuoritempo ma indomita e chiama l’applauso, Rebecca Marder si conferma volto-rivelazione, trionfa l’avvenenza di Nadia Tereszkiewicz (appena vista in “Forever Young-Les Amandiers” di Valeria Bruni Tedeschi), da segnalare il Léon Trapu di Olivier Broche, caratterista di vaglia, è lo scritturale al servizio di Luchini-Rabusset e son duetti godibili. Non c’è parte o particina tirata via, la scenografia di Jean Rabasse contribuisce a dovere, insieme alle musiche, dove primeggia “Le bonheur c’est un rien“, cantata dalla gloriosa Danielle Darrieux, protagonista da giovanissima in “Amore che redime“. Il film, 100 minuti che passano troppo in fretta, è prodotto da Gaumont, France 2 e Mandarin Cinéma. Nelle nostre sale con BIM Distribuzione.
Sostieni strisciarossa.it
Strisciarossa.it è un blog di informazione e di approfondimento indipendente e gratuito. Il tuo contributo ci aiuterà a mantenerlo libero sempre dalla parte dei nostri lettori.
Puoi fare una donazione tramite Paypal:
Puoi fare una donazione con bonifico: usa questo IBAN:
IT54 N030 6909 6061 0000 0190 716 Intesa Sanpaolo Filiale Terzo Settore – Causale: io sostengo strisciarossa
Articoli correlati