Milano progressista, modello anti populismo
E’ da tempo immemorabile che noi milanesi ci vantiamo di rappresentare un laboratorio politico, il campo di sperimentazione di alleanze e formule che condurrebbero la sinistra o il centrosinistra (una variabile secondo le stagioni) al governo del paese, ad una egemonia politica e culturale all’insegna della democrazia e dei migliori valori, dall’eguaglianza alla solidarietà sociale. Milano come “modello”. Anche in questo caso, se pure timidamente, qualcuno lo ha sostenuto, per la sinistra, ricordando lo schieramento che aveva sostenuto Pisapia e che sostiene Sala, al punto di candidare (lo abbiamo già scritto su queste pagine) il sindaco, manager per una vita, lontano dalla politica, a guidare un futuro Partito democratico senza Renzi. Perché tornassimo con i piedi per terra, un amico ci ha ricordato elezioni di un secolo fa. Siamo nel 1922, amministrative del 10 dicembre. Il Partito socialista unitario (quello di Turati) ottenne il 29,8 percento, il Partito socialista l’11,3, il Partito comunista l’1,5. Non pochi pensarono che la resistenza al fascismo (la marcia su Roma s‘era conclusa con la resa del re un mese e mezzo prima, il 30 ottobre) sarebbe potuta partire da quel risultato nient’affatto disprezzabile, considerando le condizioni in cui si era svolto il voto. Come sia andata a finire sappiamo.
Così, se la storia insegna, l’affermazione del segretario metropolitano del Pd, Pietro Bussolati, “Milano è in controtendenza”, consola, inorgoglisce, anche se non dovrebbe stupire perché Milano è grande e moderna, ma lascia le cose come stanno e lascia la sconfitta del Pd e della sinistra in genere nelle proporzioni di cui s’è dovuto prendere atto fin dalle prime proiezioni, al nord, come al sud, con il centrodestra o i grillini in prima fascia, in piedi a gridare vittoria e a pretendere di governare, come non si sa, ma questo è un altro capitolo.
Il sindaco Sala, in memoria della sua campagna elettorale, è tornato alle “periferie”: “Lì c’è un problema. Noi stiamo facendo molto, ma è difficile cambiare un sentimento dopo anni in cui si è fatto poco o niente”. E’ vero per Milano, dove di rosso si tingono i quartieri centrali o semiperiferici, quelli a più alto reddito (quasi a specchio del sì referendario), quelli dove vota la borghesia. E’ vero per Milano in confronto alla regione. E’ vero per tutti i capoluoghi lombardi di qualche dimensione rispetto alle rispettive periferie, rispetto a quello che ai tempi di Carlo Cattaneo si sarebbe chiamato “contado”, la provincia dei piccoli imprenditori, degli artigiani, di chi coltiva i campi (la Lombardia è la prima regione agricola d’Italia), pronti nella stragrande maggioranza a lasciarsi cadere nelle braccia di una destra sgangherata e attratti inspiegabilmente da una destra economica, che volge lo sguardo altrove, ai mercati finanziari, alla speculazione, alle scommesse immobiliari…
Milano è diventata un’isola circondata dall’oceano azzurro del centrodestra (con Salvini in crescita abbondante, fino a superare il 16 per cento, miglior risultato a Milano dall’epoca di Formentini), minacciata anche dai rivoli che tendono a ingrossarsi dei cinque stelle. Milano dove il Pd è il primo partito con il 27 per cento dei voti, la Lombardia dove Fontana, erede di Maroni, straccia Gori. Spiegare perché significa ricorrere a tante ipotesi e a tante descrizioni. La storia di Milano da Maria Teresa in avanti, città progressista, illuminata, poi socialdemocratica agli albori del Novecento, quindi in prima fila nella lotta di Liberazione…
Il buon governo milanese. Anche in questo caso si dovrebbe risalire nei decenni, raccontando un’esperienza che ha lasciato tracce comunque nel suo dna. Ora l’impronta di due sindaci, Pisapia e Sala, che hanno saputo rilanciare l’immagine di Milano e hanno saputo ricostruire quella tradizione solidaristica che altri amministratori (vedi Letizia Moratti con le sue fiaccolate anti rom e anti immigrati) avevano frantumato (operando nel concreto, ad esempio, perché l’impatto delle nuove immigrazioni fosse meno drammatico, spuntando così anche qualche arma propagandistica della Lega). La società milanese è divisa, come ovunque, tra ricchi e poveri (le code alle mense per il pasto gratis sono lunghe), ma forse, al di là delle situazioni di degrado estremo, la povertà pesa meno rispetto al resto d’Italia. Il lavoro c’è, nelle forme più diverse (anche se nelle forme peggiori del precariato, del nero, dell’instabilità). Il sindacato ancora raccoglie e organizza. La rete del volontariato è forte, molto per merito della Chiesa, ma è la Chiesa di Martini, Tettamanzi, Delpini, è la Chiesa di don Colmegna e di don Gino Rigoldi, assai attenta alle nuove e vecchie emergenze sociali, povertà, emarginazione, immigrazione… La cultura si manifesta ben al di là delle più celebrate istituzioni (Scala o Piccolo Teatro) e invade ogni quartiere con esiti talvolta di autentica originalità. Pensiamo anche al peso e al prestigio dei poli universitari e del sistema dell’editoria, che ha appena festeggiato il successo (almeno di pubblico) dell’ultimo salone dei libri…
La sinistra insomma non ha vinto ma si è salvata in un mondo che non sarà il paradiso, in una realtà di lavoro e di povertà meno tragica che altrove, più colta, più dinamica, più vivace, più cosmopolita (anche sulla scia dell’Expo), meno conflittuale. Si potrebbe aggiungere maliziosamente che a Milano si sente Sala e qualche altro assessore (Majorino in prima fila, Del Corno, assessore alla cultura, nel bene e nel male attivissimo), si sente poco il Pd renziano, che, quando c’è, in pubblico, si rivela assai meno arrogante di Renzi.
Dovremmo interrogarci sulle prospettive. Il male nazionale è profondo. E’ cultura diffusa. Sono sentimenti diffusi: la consolazione del consumismo, l’egoismo, il particolarismo, la tolleranza della corruzione. Si dovrebbe lavorare per unire, per colmare fossati, tra poveri e ricchi, colti e meno colti, italiani e stranieri, per colmare anche il fossato che separa la metropoli dal resto della regione, ricucendo città e campagna (attualità di Gramsci), in senso reale e in senso metaforico, magari in una logica utilitaristica: il bene di tutti fa bene a tutti. Ma, ovviamente, servirebbero intelligenza, coraggio, disponibilità e tempo.
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