“Mi manca il mio mondo e temo
che torni chi giustifica la dittatura”
PARLA FRANCESCO GUCCINI – “Vedremo soltanto una sfera di fuoco, più grande del sole più vasta del mondo…”: ma che vuol dire? Forse che la festa – della vita – è già finita? Che prima si nasce e poi si muore e buonanotte? Il fatto è che nel suo poetare in parole e musica Francesco Guccini adottava questo campo lunghissimo, forgiato nel fascino misterico della nostra ridicola ciclicità, quando era un ragazzo, mentre cominciava quel fantastico lavoro che lo avrebbe portato ad essere, in vita, il più rimpianto artista da palco del Paese, da anni sparito per sua decisione da scene calcate sempre con successo.
Anzi no, la parola “successo” è legata ad un impianto di linguaggio piuttosto volgare… diciamo meglio “con grandissime stima, condivisione, appassionata gratitudine”. Stati d’animo che non fanno parte dell’automatico riflesso di un’arte sul suo pubblico… e cioè, la relazione tra Guccini e quella sua platea è sempre stata particolare, governata fondamentalmente dal potere dell’affetto, poi tutto il resto. Strano, prima di lui c’era riuscito solo Enrico Berlinguer, uno che non cantava, è vero, ma come lui distante dal mondo dipinto dai colori del “successo”, come lui schivo ma generoso di sé, come lui mite e radicale sui principi, come lui lontano dalle trombe e dagli acuti, dalla retorica di potere.
E non era “vecchio”, Guccini, nemmeno quando aveva composto “Incontro”, quel magnifico brivido blu in cui aveva racchiuso tutto ciò che sapeva e probabilmente sa ancora, del tempo, del fluire del tempo, della vita e della morte. Così che moltissima sua poetica fin dalle origini è dominata, innervata, animata, spostata lungo un fascio particolare di frequenze da una malinconia sovrana, totale, epica davvero. Nessun poeta contemporaneo, credo, è stato in grado di condensare una nuvola così fitta di sensi, così in fondo coerente, specchio di milioni di pensieri non fessi e non aggressivi che hanno trovato casa in musica. Per una via, tra l’altro, fatta d’aria dove tutto vola, il massimo della inconsistenza volatile, e, per vendetta, invece il massimo della resistenza, visto che cantiamo “Incontro” da cinquant’anni senza stancarci e intanto di là la stanno intonando anche i nostri figli con la stessa curiosità con cui noi l’abbiamo abbracciata la prima volta e intanto dimentichiamo molti altri segni della storia che ci hanno toccati nel corso dei decenni. Questo, no: sta lì, come scoglio di un mare in cui ogni tanto si fonda un mito, e perché accada il miracolo, l’uscita di un fatto o di una sequenza di fatti dal silenzio della dimenticanza, serve un gran poeta, solo un gran poeta, sembrerà paradossale, ma è così.
Quindi, caro Francesco, ti piaccia o no per ciò che riguarda noi – e quando dico “noi” intreccio un mix di generazioni – quel poeta sei tu e la tua frequenza basica è la malinconia. Vero o falso? Nonché, se posso, la tua tenera ossessione è il tempo. Hai iniziato a inquadrarlo fin dai primi passi nella poesia, adottando uno sguardo sempre e sempre agganciato a ciò che era stato e non ci sarebbe stato più, fin da quando eri ragazzo, iniziando a scorrere le immagini del passato così come un “vecchio” si ritrova a fare quando il peso dei ricordi diventa più forte e invadente di ciò che si vive nel quotidiano, nell’attualità: corretto o sbagliato?
“E’ abbastanza giusto, credo che solo all’essere umano sia riservata la maledizione del tempo. Qualcuno potrà sostenere che le cose non stiano proprio così. Ma chi può negare che siamo i soli soggetti viventi a portare un orologio al polso? Ecco, sono portato a credere che solo noi siamo certi che oggi sia giovedì, che al solstizio d’estate le giornate cominceranno ad accorciarsi, che verrà l’inverno, che nel freddo aspetteremo Natale, e l’Epifania, e poi marzo, aprile, maggio, giugno, e arriverà ciò che mi piace di più, seguire le giornate estive che non finiscono mai, con quella luce che non vuol morire… solo noi, quelli della maledizione del tempo, quelli che sanno degli anni passati, dove come quando…”
Lo vedi che la poesia è più forte di te? Ti vien fuori anche se non vuoi e ti succedeva perfettamente alla stessa maniera, a volte in uno strazio emotivo comunque trattenuto, anche quando scrivevi il testo antico della bellissima “Vedi cara”, un eone fa. Ben prima che tu compissi settant’anni. Non ricordo dove eravamo, se attorno a Pavana oppure in giro per l’Italia. Avevi l’eskimo addosso, era il tuo compleanno o quasi, e francamente avevi le balle rotte di quel numero, lo vedevi come un muro bastardo oltre il quale il mondo delle possibilità si sarebbe ridotto e tutto sarebbe cambiato, non in meglio. Ma và, ti ho rimbeccato al solito da paladino della vita piena senza età, l’importante è sapere che gli anni contano nulla, contano i fatti e gli anni non sono fatti. “Sì sì – mi hai risposto – son settanta e puoi contarli, son tanti…”.
“Son passati undici anni da quel compleanno, ed è una certezza drammatica ripensare a quanta gente mi sia lasciato indietro in questo tempo in cui secondo te gli anni non direbbero nulla. Allora son loro la mia clessidra, quelli che se ne vanno. È morto un mio caro amico pochi giorni fa, un giornalista come te. Non c’è più. Queste partenze ti lasciano sempre più solo, non in assoluto, ma in molta parte del tuo pensiero. Registrare che attorno a me, proprio qui a Pavana, stanno scomparendo molti dei miei amici d’infanzia marca il tempo anche se non vuoi…”.
Non ci piace che le cose vadano così, siamo d’accordo. Ma come ne usciamo, come ne esci? Foglie e vento volan via nella stazione…
“Ecco, Orazio che la sapeva lunga, scriveva “Ho eretto un monumento più duraturo del bronzo, più immortale della immortale mole delle piramidi”. Ma lui era Orazio e forse la risposta è questa, se hai la poesia decisamente dalla tua parte. Lo dico da agnostico, da uno che non crede nell’aldilà”.
Bene, non ti accorgi, e forse è meglio così, che hai tirato su un bel monumento anche tu, alla tua epoca, ai suoi vizi e alle sue virtù, agli interpreti occasionali di questa oscillazione della storia in cui ci stiamo dando da fare da bravi ragazzi che sanno della giostra e del tempo che passa. Cioè: te lo dico con pudore riluttante, hai messo assieme molti mattoni di un mito attuale i cui eroi siamo noi, in genere popolo della sinistra, estrema gratitudine, Orazio resta Orazio ma tu sei Francesco Guccini.
“Ma dai, su, ti racconto questa. Come sai, ho insegnato per vent’anni circa, dal ‘65-‘66 all’’86, ai ragazzi del Dickinson college di Carlisle, Pennsylvania, a Bologna. Da poco, un gruppo di ex allievi ha messo su un premio in denaro utile a spedire ogni anno un ragazzo statunitense a Bologna e hanno intestato a me questa borsa di studio che ora si chiama “Francesco Guccini”. Si vede che son piaciuto, che ho lavorato bene perché ignoravano del tutto che io fossi uno che faceva canzoni e spesso le cantava. Bello, no?”
Davvero non sapevano?
“Davvero. Quando l’hanno scoperto si sono molto meravigliati. Ma aggiungi anche questo, a proposito della dannazione del tempo. Nel mio ultimo libro riporto in scena il mio paese d’origine, che già avevo raccontato in “Cronache epifaniche”. Il risultato di questo accostamento mi dice che la perdita non riguarda solo gli amici di un tempo, riguarda tutto, la vitalità di un ambiente naturale e insieme di un gruppo umano, riguarda l’intero scenario. Nell’introduzione del libro, ho raccontato che quando stavo al mulino del nonno, mi sedevo su un sasso, fuori, e leggevo, leggevo qualunque cosa. E intanto passava tanta gente, proprio lì davanti a quel sasso e io li vedevo e li salutavo mentre tornavano dai campetti attorno al corso del Limenta. Ora non c’è più nessuno. Tutta quella realtà è stata cancellata, quel particolare ordine è stato fatto saltare, non è stato semplicemente riformato. Quattro filari di vite, c’era il grano, ora è tutto abbandonato, nessuno più vuole lavorare la terra, fare il contadino. Almeno lungo l’Appennino. Io vedo tutto questo, assisto al passaggio perché son lì per caso, tra le due ere”
Almeno si ha ora un’idea più mordente di quella che chiami “La maledizione del tempo”. E hai ragione: lo scenario in cui avviene questo svuotamento ha una sua niente divertente grandiosità. Tuttavia, siamo vivi, non suoni a consolazione ma come bilancio materiale…
“Onestamente, devo riconoscere che oggi si vive meglio. Perché è arrivata l’acqua dove non c’era e poi l’acqua è diventata calda, in una casa dove smetteva di fare un freddo tremendo, tremendo, perché ecco che c’era il riscaldamento. No no, nessuna nostalgia, ma malinconia sì. Mi manca il rapporto fisico con quegli scenari, mi fa soffrire non poter più parlare, scambiare, sorridere con così tanta brava gente. Un mondo al quale non puoi più rivolgere la parola, chiedere qualcosa. Dipenderà anche dal fatto che per me spostarmi è diventato difficile, le gambe mi reggono a fatica e vedo pochissimo, ormai da tempo…”
Ben vero che ti sei sempre spostato da lì malvolentieri…
“Sì, e quando mi sono tolto di qui per andare là l’ho fatto spesso grazie a Raffaella…”
Sei proprio un albero…
“Mah…una fetta di formaggio sardo e un tocco di salsiccia sott’olio era la merenda più frequente di allora, queste sono le mie “petites madeleines”. Proust ha le sue, io le mie, a proposito del tempo e di ciò che scandisce i suoi ritmi”.
E per questa via torno a “Noi non ci saremo”. Lì, l’impalcatura è spettacolare, la sequenza del tempo sfuma in un futuro in cui la terra si riprenderà dalla catastrofe ma senza più gli esseri umani. Una proiezione quasi cosmogonica, una infinita linea curva poetica che si fa canto dell’universo… in cui il passato non esiste più, e neppure il presente. Eri giovanissimo, allora…
“Ma molto semplicemente provavo a raccontare cosa sarebbe accaduto nel caso si fosse concretizzata la più grande paura di quel decennio: la guerra atomica. E cantavo mentre immaginavo: rasa al suolo l’umanità dal conflitto nucleare, la natura avrebbe poco a poco ripreso ad animare la terra, questa volta senza di noi, eliminati come un virus. Lo stesso virus che ha prodotto il riscaldamento globale, quindi quella proiezione è purtroppo attuale”.
E’ anche vero che a dispetto delle circostanze materiali e storiche che l’hanno ispirato, quel brano trasmette comunque un senso di radicale smarrimento di fronte ai destini dell’umanità. Come una navicella spaziale, trasferisce le nostre minime certezze in una dimensione di cui sappiamo praticamente nulla e dove contiamo meno di zero. Per questo, forse, emoziona sensibilità culturali anche molto diverse tra loro. Affascina e sgomenta. Ma non mi sembri un adoratore della natura, lei la madre, la padrona, la sola dea.
“Non lo sono. Ma che vuoi fare? Se passo accanto a un torrente mi vien voglia di buttarmici dentro. D’inverno il Limenta forma cascate di ghiaccio, ma adesso la sua valle è verde e bellissima e una volta andavo per funghi, ora no. Ora cerco di capire come si fa a fare quella cosa complicata che mi ha suggerito Sergio Staino: la lettura audio dei libri dal computer”.
Non eri vecchio nemmeno quando rimproveravi i vent’anni, non i ventenni, d’essere “stupidi davvero”…
“Il mondo in bianco e nero, la testa piena di illusioni, amori improvvisi, amori intellettuali e politici… ma fa tutto legittimamente parte del gioco. Roba buona. Diversamente da chi in Italia rifiuta di ricordare cosa sia stata la dittatura: nessuna malinconia, che è una forma d’amore, per questo rifiuto di sapere, di ricordare cosa sia stato il discorso pronunciato da Mussolini per comunicare l’entrata in guerra del Paese, il 10 giugno del 1940. Nessuna malinconia di fronte a una tragedia: sta tornando quella gente. E vinceranno, temo”.
(ps: Francesco Guccini ha compiuto 81 anni in questi giorni)
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