Messina, la città va al voto “contro” la Fata Morgana
Arrivarci in auto, correndo a 130 km/h il tratto in discesa dell’autostrada sino allo svincolo di Villa San Giovanni, provoca un tuffo al cuore. La punta della Sicilia, il Pilone di Messina, meglio vederli di sera quando si spegne l’imbrunire e vince la notte. Lo Stretto appare e poi si nasconde all’ingresso e all’uscita di ogni galleria tra Bagnara e Scilla. Gioca a nascondino, con le sue luci magiche, sin quando all’ultima curva inizia il breve tragitto verso il traghetto. Sì, in quel momento, lo Stretto lo si beve tutto. Ci si affoga nella sua bellezza infinita, quasi crudele. Si vorrebbe che questa meravigliosa tortura mai finisca. Questo è. Ogni volta è così. Lo sappiamo, lo sanno quelli che hanno una scossa, come un lampo nella mente. Che squarcia ed allontana, per qualche momento, una realtà cruda. Perché, una volta svegli dopo essere rimasti stregati, ecco lo sbarco.
“A Missina non c’è nenti”
Benvenuti nella Città Metropolitana di Messina che, per calcolo politico e per interessi nascosti, venne definita “babba”. Cioè innocua, stupida. Pur di allontanare qualsiasi sospetto che potesse esserci, anche qui, un terreno d’azione delle cosche. Furbizie del potere che ha saputo, almeno dagli Anni Settanta, far crescere come senso comune il fatto (menzognero) d’essere un’area felice rispetto all’altra Sicilia infestata dal sistema mafioso. Furbizie, appunto. Bugie. Dannati imbrogli. Omissioni. Depistaggi. Malgoverno di grandi burattini e di ominicchi in una città depressa, distesa in orizzontale, odiata dai giovani che (quelli che han potuto) se ne sono scappati al grido di “a Missina non c’è nenti”. A Messina non c’è nulla, niente da fare. Ovviamente, ci sarebbe da fare una montagna di cose. Ma quel grido piace moltissimo, è diventato un mantra. Sapete, per dirne una, cosa ci sarebbe da fare? Scoprire chi ha assassinato una sera d’inverno, il 15 gennaio del 1998, il professor Matteo Bottari, primario del Policlinico. Da 24 anni non c’è una verità. Non c’è un colpevole. La commissione antimafia si precipitò e disse che a Messina c’era “un verminaio” attorno agli appalti universitari. Cadde il silenzio. Tutto dimenticato. Pace all’anima sua, del professore ammazzato come un cane sotto casa. Come nei più classici e disgustosi scenari, hanno cercato di infangarne la memoria: questione di “corna”. La città ha tollerato.
Con scarsa regolarità, e me ne dolgo, si torna di volta in volta, da espatriati, a Messina. Tredicesimo capoluogo italiano. 220 mila abitanti in perenne calo. Lo sbarco avviene agli approdi delle navi Caronte del Gruppo Franza-Matacena (il secondo è un cognome caro ai “boia chi molla”). Si tocca terra dove si è compiuta la storica resa dello Stato nella battaglia dell’attraversamento dello Stretto. È qui, nella rada di San Francesco, zona nord della città, che nel 1965 ha avuto inizio il percorso predatorio del privato che, di fatto, ha affondato la flotta FS che si occupava del trasporto su gomma. Bandiera bianca. Due milioni e 300 mila vetture e 800 mila camion. Il biglietto a 35 euro, fate i conti. Ah, è davvero questa la concorrenza, bellezza? Quella che ha spezzato le gambe allo Stato e che ha aperto i forzieri di famiglie fameliche, incrociato affari e politica, concesso spazi (rubati al pubblico utilizzo)? È il mare rapinato, sono le spiagge cancellate, le fontane spostate, il panorama negato, le colline sfregiate, le strade trasformate in piste per i Tir che squarciano l’abitato e che lo polverizzano con il gasolio dei tubi di scappamento. Ondate di lamiera tranciano la città, la segnano per sempre lasciando macerie. L’economia di Messina: apparato pubblico, attività autonoma, università, pensioni e assistenza. L’illusione inizia a bordo: due arancini al ragù venduti nei bar delle navi. Che bontà. E, poi, ciao ciao Messina. Dalla tangenziale piena di buche, ti saluto sdraiata, tra mare e monti (Peloritani), nella “lupa” che avvolge acqua e terra, uomini e palazzi, mestieri (pochi) e fantasmi del passato. Ciao ciao, con le mani, con i piedi e con il culo.
Benedicimus
Messina ha una falce. Che protegge il suo porto storico. Lì, dagli Anni ’30, c’è una Madonnina in cima ad una stele. La Madonna della Lettera. La Patrona che scrive ai cittadini: “Vos et ipsam civitatem benedicimus”. È innegabile: fa una grande fatica a proteggere. Nel 1908 non ci fu verso. Il terremoto squarciò lo Stretto e travolse uomini e cose. Dopo 114 anni la maledizione del sisma non è mai scomparsa. Ne hanno scritto in tanti. Rammento l’ultima brava autrice, Nadia Terranova. Lei non manca mai di darci colpi al cuore, sensazioni magiche, tristezze e rabbia, dolcezze e ricordi struggenti di questo mare e di questa città che, affranta, dorme. Per non vedere. Langue per non soffrire di più. Sommersa come la vede in “Risa” Michele Ainis. Una città che è costretta ad assistere allo spettacolo triste, anzi squallido, di un ex sindaco che l’ha insultata per quattro anni, l’ha blandita, l’ha soggiogata con gesta e atti scomposti, con maleparole, serenate, musica di zampogna, il segno della croce, le dirette sui social con una faccia da guitto, i discorsi accompagnati da lunghe pernacchie a favore di telecamera dal suo ufficio al Comune. Sacro e profano sarebbe già sufficiente. Siamo invece allo scempio. Delle buone maniere, del rispetto delle regole civiche, di un minimo di buon senso. Disciplina ed onore svaniti nel nulla. Gesti estremi. Lui è un battitore libero, un “civico”. Si chiama Cateno e lo chiamano “Scateno”. Soprannome che ha trasformato in un marchio. Invero un uomo di destra da sempre che, però, si è fatto “indipendente”. Qui, nella città che votò per la monarchia, vale la Costituzione, oppure no? Una condanna per vilipendio nei confronti del ministro dell’Interno l’ha presa come una medaglia. E per questo atto di valore ha incassato anche il sostegno di Vittorio Sgarbi che si è precipitato a Messina per dar manforte al suo candidato sindaco.
Il fatto è che a Messina si tocca terra e si assiste, atterriti, alla disputa sconcia per il Comune. E all’ex sindaco, che va in scena con ben nove liste a sostegno del suo candidato (lui, l’uscente, punta alle prossime Regionali, ma questa è una storia dentro la storia), che presenta nella piazza del Duomo i 288 candidati al Consiglio, che fa lo sbruffone, a lui che si è affidato al leader nazionale della Lega rompendo con Forza Italia e Fratelli d’Italia, replica un candidato di punta della coalizione di centrodestra. Per non essere da meno, questi mette in rete un video. Lo si vede mentre invoca l’ex sindaco gridandone il nome dentro un cassonetto pubblico per l’immondizia. Si scopre che c’è una rissa, a colpi di accuse di favoritismi, sui familiari di alcuni candidati che hanno partecipato a concorsi in città. Accuse, vere o false, da una parte e dall’altra. Uno spettacolo che svela il livello del dibattito politico che riguarda la cosa pubblica. “Infame”, “capraro”, “pezzo di merda”: sono alcuni degli argomenti utilizzati nella controversia. Attorno al tema: “Perché mia moglie non può partecipare al concorso”? La città ne parla e, più ne parla, più degenera il dibattito pubblico. Il decoro, l’etica pubblica sparisce, e aumenta l’incuria degli spazi fisici. Ci sono luoghi lasciati a perdere: un palazzo della Dogana fantastico, un ex ospedale da riciclare vicino al Museo che vanta due Caravaggio. Tutto è fermo.
A chi parlano i progressisti?
C’è una parte della città che osserva sgomenta. Quanto è grande, oppure a quanto si è ridotta la capacità di resistenza e di ribellione a tutto questo? A chi può parlare uno schieramento “progressista”? C’è un buon uomo (dei dem) in campo per sindaco (si chiama De Domenico), ci sono i volenterosi del “bene comune”, i seguaci del sindaco precedente, quello che andava scalzo e che fu leader dei “No Ponte”, c’è Articolo Uno che esprime – da poco – una stimatissima deputata. Han fatto una lista che ha per simbolo “Mata e Grifone”, i due mitici fondatori della città. Si danno da fare, per quanto possono. Ci sono i grillini, in sofferenza come altrove ma che esprimono molti parlamentari. E c’è il Pd che si è, per fortuna, liberato da una storia controversa legata a quel Francantonio Genovese, unito ai Franza, e che fu persino segretario del partito. Poi travolto da vicende giudiziarie clamorose, finito in carcere, tuttora a giudizio, con destinazione naturale in Forza Italia e, adesso, rappresentato dal figliuolo nell’Assemblea regionale alla guida di un movimento autonomo, sempre a destra. Eh, sì, la politica di Messina fa girare la testa. Ma la somma è sempre uguale. Perché, chiamala come vuoi, è sempre esistita una cupola che ha soffocato la città. Che si è retta, soprattutto negli anni ruggenti, sulla sinergia tra enti pubblici, università, magistratura e monopolio dell’informazione.
Quella falce del porto è il tesoro della città. Tanti bei progetti. Sinora chiacchiere. Chi ha visto San Francisco sogna spiagge libere e bonificate, piccoli alberghi, un museo del mare, tanti locali affacciati sullo Stretto, musica, arte. Una miniera d’oro. La destra parla di “impresa” ma non è in grado di governare. Un Eldorado che, per ora, scivola via come il fenomeno della Fata Morgana. Sinora solo illusioni proiettate in cielo e che in breve si dissolvono. Come i turisti dei grandi transatlantici che vagano smarriti per le strade, senza alcuna meta. Non li portano nemmeno a vedere i quadri di Merisi e di Antonello da Messina. Forse, gli fanno vedere in poche ore solo Taormina.
Il Ponte e la città delle baracche
La destra ha ancora l’ardire, non dico il coraggio, di reclamare il Ponte. Nel frattempo, in treno si va a binario unico verso Catania e Palermo. Ore sprecate. S’erano inventati anche le “frecce” ma s’è scoperto che vanno più lente dei “regionali”. Bugiardi, incantatori di serpenti. Fanfaroni. Anzi, come si dice a Messina, “buddaci”, come quei pesci dello Stretto dalla bocca grande che parlano e parlano ma non combinano nulla. Tutto fumo e niente arrosto. Da decenni. C’è stata una classe dirigente che non ha nemmeno saputo risolvere il problema della cosiddetta “continuità territoriale” sullo Stretto. Cosa ci vuole a fare un tapis roulant dalla stazione centrale di Messina al molo degli aliscafi veloci per Villa San Giovanni sulla costa calabrese? Perché i passeggeri devono trascinare le valigie sotto la pioggia o sotto un sole rovente? Perché non fissare un prezzo politico per l’attraversamento pedonale? Queste sembrano piccolezze. Di fronte a temi enormi. Come quello che ogni giorno sette giovani abbandonano la città. Perché “a Messina non c’è nenti”. Rieccola la frase terribile. Chi ascolta questo grido?
Un mese fa al teatro “Vittorio Emanuele” è arrivato il presidente Mattarella. Ospite delle celebrazioni per i 70 anni della “Gazzetta del Sud”. Spiace. Dolorosamente spiace che ci sia stata una esaltazione elogiativa del ruolo di questo giornale che storicamente, tra Messina e la Calabria, è stato il simbolo e il protettore di un sistema di potere lungo e nefasto per le popolazioni delle due sponde. Il proprietario era un imprenditore dell’industria molitoria, banchiere, parlamentare monarchico, poi dc e infine del Msi e della Destra nazionale. Questo giornale, per avere un’idea e stimolare il ricordo, titolò in questa maniera sull’attentato di piazza Fontana a Milano: “È stato un anarchico antifascista l’autore della strage di Milano”. Senza vergogna. Invece, ancora oggi, si rende omaggio a questa voce “libera” nel Mezzogiorno. Un prefetto, intervenuto alla cerimonia, ha detto che “la Gazzetta è diventata una istituzione. Se scrive una cosa, allora è vero”. Potere e informazione. Una copertura magistrale delle imprese ormai decennali che hanno incatenato Messina (e anche la Calabria). In parte è ancora così. Per esempio: il sindaco uscente, il “civico” prima dc, poi udc, infine in questi giorni alleato della Lega, durante la prima parte del suo mandato è stato duramente criticato dal giornale (ora in mano ad una Fondazione). Nell’ultimo anno, improvvisamente, la musica è cambiata. Baci e abbracci. Ne succedono cose. Che non si sanno. O, forse, che molti intuiscono.

Messina è anche la “città delle baracche”. Da decenni il terremoto non c’entra più. Ma sulle lamiere e sull’amianto con cui sono stati costruiti vasti insediamenti abitativi, hanno lucrato classi dirigenti senza scrupoli. La promessa di una casa dignitosa ha fatto fortune elettorali e, dunque, creato e alimentato potere. Che, in condizioni di indigenza, ha tenuto in piedi un sistema fondato sulla soggezione e la mendicità. E, adesso, di fronte ad una manciata di milioni recuperata in parlamento per rimuovere le prime baracche si contendono l’evento le due destre, quella storica (DC con liberali e missini) che ha imperversato in città e quella recente del sindaco uscente (transfuga del centrodestra). E si insultano. Il candidato della coalizione progressista crede che si possa, finalmente, provare ad invertire questa deriva. Denuncia le terribili diseguaglianze sociali, la fuga dalla scuola, la fame di lavoro e la dignità perduta. In questa coalizione c’è anche quella lista civica che ha scelto come simbolo i fondatori di Messina, la popolana Mata e lo straniero Grifone venuto dall’Africa. Lei bianca, lui nero. Dunque, una città che accoglie e non discrimina. Città che fu potente, senatoriale, ribelle ma anche negletta, incupita, svogliata, rassegnata. Come sfiancata da una lunga, estenuante ondata di scirocco che debilita, penetra nella carne viva. Eppure, mai bisogna disperare. È necessario avere la forza di “scendere nell’inferno” (Sergio Todesco) delle periferie, di calarsi nel dramma dei senza reddito. Per compiere un viaggio collettivo che sconfigga il virus della disaffezione, la propagazione della delinquenza diffusa che, a volte, si manifesta con i buchi dei proiettili sulla cartellonistica stradale, oppure con le corse clandestine dei cavalli. E che faccia anche i conti con la condiscendenza del ceto medio privilegiato. Se le forze progressiste riuscissero ad entrare nel ballottaggio, superando una delle due destre, si aprirebbe uno scenario incoraggiante.
“In fondo al viale”
Un professionista e intellettuale, come Nicola Bozzo, ha detto che si può stavolta invertire la marcia in una comunità che ha visto “frantumato il suo tessuto sociale”. Davvero significativo quel che ha detto Sgarbi accompagnando il candidato fantoccio di “Scateno” dietro la processione della patrona: “Vincerà senza fatica perché ha una faccia da nobile siciliano”. Vincerebbe non già per quel che propone, ma per i suoi tratti somatici: perché assomiglia ad un “nobile”. A questo siamo. Per sgomberare questa terribile idiozia, il consiglio è di arrampicarsi a Dinnammare, sui Colli Peloritani, sino a 1.128 metri. Si guarda giù e non è escluso che vengano le vertigini, tanto immenso è lo spazio tra mare e cielo. L’acqua dello Stretto e i monti della Calabria. Da una pineta, proprio sotto, si scorge la distesa della città di cui non si avvertono i rumori ma se ne vede nitido il disegno, si distinguono i palazzi, le vie squadrate ed anche le auto. Può arrivare una nuova stagione. Perché Messina è una città bellissima che merita il riscatto. Negli anni Settanta un gruppo musicale locale, i Gens, ebbe un discreto successo nazionale. Suonava e cantava “In fondo al Viale”. Un posto ben identificato, quel viale cuore della città dove c’era un caffè-ritrovo. E “dove la gente non sa cosa fare”. Lo saprà stavolta?
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