Mény: l’Europa risponda
alla deriva dispotica

INTERVISTA Democrazia e libertà coincidono sempre? Da molti decenni siamo stati abituati a pensare che sia così, che si tratti di un binomio naturale e indissolubile. Ma oggi è entrato prepotentemente nel dibattito politico il concetto di “democrazia illiberale”, che si basa sull’idea che un potere plebiscitario, legittimato da un grande consenso popolare, possa autoconsiderarsi sciolto dai princìpi e dagli obblighi che definiscono il sistema delle libertà civili: libertà d’opinione, di stampa, di religione, di associazione e via elencando.

La Russia di Vladimir Putin, la Turchia di Recep Tayyp Erdoğan, le entità balcaniche cui Predrag Matvejevič applicò la definizione di democratura inventata dallo scrittore uruguayano Eduardo Galeano, ma anche molti altri stati fuori o ai margini dell’Europa, sembrano appartenere a questa categoria della politica. La novità, ora, è che essa pare aver conquistato un suo spazio anche nella “nostra” Europa, quella all’interno dei confini dell’Unione e, soprattutto, all’interno dell’ambito storico e culturale al quale avvertiamo in modo immediato e pieno la nostra appartenenza: che cosa c’è di più “europeo” di capitali come Praga, Budapest, Varsavia o – anch’essa si è aggiunta all’elenco – Vienna? La vittoria di Viktor Orbán in Ungheria, ma già quelle del partito di Lech Kaczyński e di Beata Szydło in Polonia, di Milos Zeman e del “Trump di Praga” Andrej Babis in Cechia, l’approdo al governo degli xenofobi della FPÖ in Austria sono stati, sotto questo profilo, la rottura di un argine.

E la domanda che segue è: il nostro, di argine, reggerà? O è, almeno in parte, già saltato? In che modo si porrà la questione del rapporto tra consenso popolare e libertà in presenza delle spinte demagogiche e “sovraniste” della destra e delle confuse e abbastanza oscure propensioni alla pratica di forme di democrazia diretta via web dei cinquestelle?

Vedremo. Intanto è utile cercare di capire quel che sta accadendo nella vasta area di Visegrád, che comincia a diventare popolare anche nella destra di casa nostra e che, con l’adesione dell’Austria dell’enfant prodige democristiano che ha voluto nel suo governo gli estremisti della FPÖ, tocca ormai i confini del Brennero. Per farlo abbiamo chiesto l’aiuto di Yves Mény, uno dei più autorevoli studiosi dei modelli politici e delle istituzioni in Europa. Il professor Mény ha insegnato in varie grandes ecoles e università in Francia, in altri paesi europei e negli Stati Uniti. È stato direttore dell’Istituto universitario europeo di Firenze e nel 2014 è succeduto a Giuliano Amato alla presidenza del consiglio di amministrazione della Scuola superiore Sant’Anna di Pisa. Ha pubblicato saggi e libri sullo sviluppo delle istituzioni europee, sull’evoluzione dei modelli politici, sui conflitti d’interesse e sul populismo, tra l’altro “Populismo e democrazia” (ed. Il Mulino).

Professore, recentemente lo storico ungherese Zoltán Kovács, che è considerato l’ispiratore politico di Orbán, ha affermato che “la democrazia non è necessariamente liberale”. L’idea di una “democrazia illiberale” si va sempre più affermando nelle posizioni della destra al potere nei paesi dell’Europa centro-orientale: lei pensa che questa parte d’Europa sia particolarmente esposta a questa deriva? E se sì, perché?

La democrazia è stata definita in modi molto diversi dalle sue origini greche ad oggi. Ad Atene il demos era la fonte del potere, ma escludeva la maggior parte della popolazione, sia le donne che gli schiavi. Alla fine del Settecento le rivoluzioni americana e francese non hanno voluto creare una “democrazia”, ma delle repubbliche basate sulla legittimità popolare (“We the People”) e in entrambi i casi era percepibile il timore degli eccessi popolari, quelli che hanno caratterizzato la Rivoluzione francese dal 1791 in poi. L’impossibilità di una democrazia diretta “praticabile” spinse i riformisti verso una forma di governo basata sulla rappresentanza. Chi temeva di più il popolo fu portato a “moderare” il suo potere con un sistema di molteplici “checks and balances”. All’inizio il liberalismo si presenta insomma in buona misura come anti-democratico o almeno “democratico ma non troppo”. La democratizzazione fu il frutto di una lunga battaglia per le libertà civili (diritto di voto e altre) e per l’eguaglianza (welfare), bilanciata dall’affermazione dei diritti e della limitazione (liberale) del potere. È stato, per così dire, uno strano sistema misto che ha permesso lo sviluppo della democrazia come la conosciamo. Questo sistema può anche comportare, in modo normale (come negli USA o in Svizzera) o eccezionale (Italia, Francia) degli strumenti di democrazia diretta. Oggi la democrazia è un mix delicato e in continua mutazione giacché la democrazia è un ideale mai completamente raggiunto. Voler perfezionare la democrazia è utile e necessario: il problema è non farla regredire. In particolare dove essa è fragile o di recente acquisizione. I paesi dell’Est europeo sono più esposti al rischio perché per la maggior parte non avevano conosciuto la democrazia prima degli anni ’90 e spesso le democrazie che si sono affermate dopo sono state accompagnate da fenomeni patologici (corruzione, speculazione) o di devastante impatto economico-sociale (liberalizzazione economica) poco favorevoli al consolidamento di una democrazia in costruzione. D’altronde c’è stata una certa destabilizzazione delle fondamenta democratiche anche nei paesi di vecchia democrazia.

Questo concetto di democrazia illiberale, e cioè che un potere legittimato dal consenso elettorale del popolo possa sottrarsi agli obblighi del rispetto delle libertà fondamentali (di opinione, stampa, religione) e cioè che esista, secondo la dottrina del giurista del nazismo Carl Schmitt, una legittimità superiore alla legalità, non è l’elemento costitutivo principale di quel fenomeno che chiamiamo genericamente “populismo”? In Italia i suoi sostenitori sostenevano che il potere di Berlusconi derivava direttamente dall’investitura popolare e che quindi non poteva essere sottomesso alle regole della legalità formale, per esempio alla magistratura…

Una delle regole fondanti della democrazia liberale è che il potere, anche se legittimato dalla volontà popolare, deve obbedire alle regole esistenti. Le può eventualmente modificare, ma secondo princìpi e leggi di più alto livello espresse da una Costituzione. Approfittare di una maggioranza occasionale per cambiare l’assetto democratico si può fare in certe circostanze, ma non è accettabile sotto il profilo dell’etica democratica, la quale impone che la maggioranza rispetti regole e opposizione. La legittimità popolare non può permettere tutto. La democrazia liberale è l’antitesi della tesi di Saint-Just: “Pas de liberté pour les ennemis de la liberté”. Virtù democratica è anche la moderazione.

Vede un rapporto tra il concetto di democrazia illiberale, o di “potere legittimo” perché proveniente immediatamente dal “popolo”, e la fede nella possibilità di praticare una democrazia diretta, con gli strumenti messi a disposizione dalla Rete e senza l’intermediazione delle rappresentanze?

C’è un legame forte tra democrazia diretta e democrazia illiberale perché la prima si basa sull’idea che la maggioranza quando si esprime si impone senza “sì” e senza “ma”. Invece in una pratica parlamentare ci sono regole procedurali, scontri di opinioni, emendamenti, forme di controllo costituzionale e così via. Le soluzioni possono essere grigie, mentre il mondo della democrazia diretta è bianco o nero. Forme di democrazia diretta possono essere utili in certe circostanze ma non possono essere un modo di governo “normale”. Senza contare il fatto che la democrazia diretta non prende in alcuna considerazione né chi si astiene né chi ha perso, così può accadere che la cosiddetta “legittimità popolare” emana, in realtà, da una minoranza. Ovviamente può succedere la stessa cosa anche nelle elezioni parlamentari, ma in quel caso il vincitore non piglia tutto e il parlamento eletto è sottoposto a regole e a limiti. La democrazia popolare ha un altro grosso difetto: troppo spesso a interpretare quale sia la volontà popolare è il leader carismatico, che pretende di saperlo meglio di chiunque altro.

Il fatto che le istituzioni dell’Unione europea presentino un evidente deficit di democrazia, e cioè che le loro decisioni politiche non siano sottoposte al voto popolare non è un fattore che favorisce l’insorgenza di un’opinione populista (decidono tutto “quelli di Bruxelles” che non sono stati eletti da nessuno)? Il sovranismo, fondato sull’idea che ci si debba riappropriare delle sovranità cedute all’Unione, può presentarsi così come il paladino della democrazia. Ma se ciò accade non è anche a causa degli errori che si sono compiuti nella costruzione europea?

L’Unione Europea è come la nave degli Argonauti, che doveva essere riparata mentre navigava. Nel corso dei suoi 70 anni l’Europa è cambiata moltissimo, sia sul piano istituzionale e delle sue politiche sia sul piano democratico. Ora è a cavallo tra due realtà, quella di un’associazione di stati e quella di una specie di federazione incompiuta cui mancano gli elementi che ne potrebbero fare una democrazia piena. Ha davanti a sé un cammino lungo e molte opposizioni. Nello stesso tempo, però, come avrebbe detto la signora Thatcher, “there is no alternative”. La sfida è di essere al passo con il mondo com’è, un mondo in cui non ci si definisce più con delle frontiere chiuse. Certo, le frontiere esistono ancora ma sono sempre meno significative, inadeguate ad affrontare la gestione dei problemi a livello regionale o globale: flussi migratori, inquinamento, criminalità, per non parlare dei flussi commerciali o delle comunicazioni elettroniche. Il mondo non è più chiuso da muri. La scelta dunque è tra l’impotenza dei singoli paesi a far fronte da soli a queste rivoluzioni e una gestione comune. L’Unione Europea è l’opzione migliore. Paradossalmente anche i suoi fallimenti lo dimostrano: tutti concordano sull’idea che il modo in cui l’Europa ha affrontato la questione delle migrazioni è stato fallimentare, ma tutti concordano sul fatto che si tratta d’un problema che non può essere nella responsabilità dei singoli paesi. Neppure gli Stati Uniti, con tutta la loro potenza economica e militare, riescono a fare da soli. Il sogno dell’isolamento è un incubo, a meno che non si pensi di diventare tutti come la Corea del Nord. Pensiamoci: i discorsi populisti non hanno risolto nulla. In Italia, la retorica leghista degli anni ‘80 sull’immigrazione è sfociata nella legge Bossi-Fini, in base alla quale c’è stato il più ampio condono migratorio del dopoguerra. Un esempio illuminante dell’abisso che c’è tra la retorica populista e il realismo dei fatti.