Meno big, più salite e sfide incerte
Al via il Giro d’Italia della “ripartenza”

Il Giro d’Italia – che inizia oggi, sabato 8 maggio, a Torino e si conclude domenica 30 a Milano – è la più bella corsa ciclistica del mondo. Più che organizzativi, i meriti sono – per così dire – del territorio: nessun’altra corsa a tappe può vantare un percorso così vario, suggestivo e impegnativo, dall’alta montagna, ai saliscendi collinari, alle tappe lungo il mare, persino i chilometri di sterrato (re)introdotti da qualche anno e che in questa edizione si snoderanno lungo le salite e discese di Montalcino.

Il Giro d’Italia è la corsa più bella ma non la più importante. Per età e prestigio, il Tour de France resta sempre una spanna al di sopra, e anche altre classiche del Nord Europa (come il Giro della Fiandre o la Parigi-Roubaix) richiamano un tifo popolare e un’attenzione mediatica quasi senza eguali. Eppure – per restare al percorso – il Tour è molto più scontato: un lungo avvio con tappe piatte, poi le Alpi, il Sud, i Pirenei (o viceversa) e l’immancabile conclusione a Parigi. E anche lo svolgimento della corsa – almeno da parecchi anni a questa parte – ne risente: c’è sempre un campione, dotato di una squadra fortissima – che dà la prima stoccata a cronometro o quando la strada inizia a salire e poi controlla la concorrenza fino a Parigi (Le eccezioni ovviamente non mancano, soprattutto quando spuntano nuovi talenti, come è accaduto lo scorso anno con il giovane sloveno Pogacar).

Il Giro, invece, è di norma più imprevedibile. Prendiamo l’edizione 2018, quella vinta dall’inglese-kenyota Chris Froome, un campione che aveva nel suo palmares già quattro Tour de France e si avviava al declino. Quello al Giro non sarà il suo successo più importante ma è considerato unanimemente il più bello, costruito con una fuga solitaria e folle di 80 chilometri sulle Alpi, che gli ha consentito di staccare gli avversari e rovesciare il banco. Il coraggio invece del calcolo: difficilmente poteva accadere altrove.

Resta il fatto che – anche a causa della difficoltà di correre a pochi mesi di distanza il Giro e il Tour per vincerli – i campionissimi preferiscono concentrarsi sulla corsa francese di luglio, più ricca e prestigiosa. E’ sempre stato così, a meno che non fossero al via fuoriclasse assoluti come Coppi o come Merckx, Anquetil, Indurain, capaci di realizzare storiche accoppiate. Altri tempi. Sulle strade del 104simo Giro non vedremo così neanche stavolta i ciclisti più forti del momento, il già ricordato Pogacar e il connazionale Roglic, e nemmeno i talentuosi Van Aert, Alaphilippe, Van der Poel. Ma la sfida è comunque di livello: dal colombiano Bernal, vincitore del Tour 2019, all’inglese Simon Yates, fino al giovane talento belga Evenepoel, al rientro alle corse dopo l’infortunio gravissimo della scorsa estate al Giro di Lombardia, quando finì in una scapata per una rovinosa caduta in discesa. Gli italiani sono fuori da tutti i pronostici: scommettere su Vincenzo Nibali (ultimo vincitore azzurro 5 anni fa, ma ormai 37enne e per giunta reduce da una frattura al polso) o su qualche giovane promettente (Masnada, Fabro) pagherebbe parecchie volte la posta.

Il bello del Giro (come di tutto il ciclismo) però è anche che lo sciovinismo non ha un peso totalizzante, come accade ad esempio nel calcio. Certo fa sempre un certo effetto guardare “i francesi che si incazzano”, ma alla fine i francesi si prendono anche gli incitamenti e gli applausi quando fanno l’impresa, come sulle strade del Giro capitava a Bernard Hinault. Per non parlare di un belga amatissimo anche da queste parti come Eddy Merckx, nonostante le batoste inflitte (non sempre, per fortuna) al nostro Gimondi. Non a caso scrittori e intellettuali si sono innamorati di questo che è lo sport popolare e contadino per eccellenza, e l’hanno raccontato sui giornali o in televisione, da Alfonso Gatto e Maria Ortese sull’Unità a Dino Buzzati sul Corriere, a Sergio Zavoli al Processo alla tappa della Rai, per citare i primi nomi che vengono in mente.

Nell’epoca della pandemia si vedrà naturalmente meno gente agli arrivi e anche sulle salite, come è già avvenuto l’ultima volta nell’insolita collocazione di ottobre, ma più d’uno indica la corsa rosa come uno degli appuntamenti della “ripartenza”. Come nel dopoguerra, quando Fausto Coppi rientrò dal fronte, smagrito e quasi irriconoscibile e di lì a qualche mese ricominciò a far sognare i tifosi e tutto il Paese. Per restare alla storia, si parte da Torino per celebrare i 160 anni dell’unità d’Italia: oggi sarà assegnata la prima maglia rosa dell’edizione 104, esattamente a 90 anni dall’istituzione di uno dei più riusciti simboli italiani.