Marino, ferita aperta:
è stata la madre
di tutti gli errori del Pd
Tre anni e mezzo dopo quelle firme dal notaio è un altro mondo. Ha ragione Ignazio Marino a dire “giustizia è fatta ma la ferita resta”. La ferita, se possibile, si è allargata. Alla sconfitta subita a Roma con l’elezione di Virginia Raggi si è aggiunta la sconfitta al referendum costituzionale del 4 dicembre 2017, alla quale si è aggiunta la sconfitta alle elezioni politiche del 4 marzo 2018. E si è aggiunto il governo giallo-verde, dominato dal socio di minoranza Matteo Salvini.
La firma dei 26 consiglieri comunali del Pd dal notaio che costrinse Ignazio Marino, la sua giunta e tutti i 15 presidenti di municipio, a cadere, non è stata solo un grave errore politico per Roma e per il Pd romano, è stato un macigno che ha prodotto una valanga, è stata la madre di tutti gli errori politici. Ha trascinato con sé la breve stagione di Matteo Renzi, lasciando sul terreno macerie dalle quali non è ancora chiaro se il Pd riuscirà a sollevarsi. Dal momento in cui la notizia si è diffusa, la richiesta che incontro più spesso nei social media è “chiedere scusa”. “Chiedere scusa alla città, alla persona, alle istituzioni offese”, scrive Giovanni Caudo, che è stato assessore di Marino e che è ora presidente indipendente di centro sinistra nel Municipio 3 di Roma.
Tanto più fa impressione leggere che Matteo Orfini, allora presidente del Pd e commissario di partito a Roma, rivendica ancora oggi quel disastro con l’argomento “gli scontrini erano marginali, le motivazioni erano politiche”. Fa impressione in primo luogo perché è falso. Che cosa avrebbe giustificato una misura extrapolitica, extraistituzionale, incurante della democrazia, come la firma dal notaio, se non una presunta urgenza morale? Fu sbandierata allora la natura penale del reato contestato al sindaco e ci torna, quasi come una macchietta, Stefano Esposito. Ma fa ancora più impressione perché la motivazione politica è una di quelle mezze verità che lasciano l’amaro in bocca, solo che non era politica ma lotta di potere interna.
La guerra al sindaco era iniziata prima che scoppiasse lo scandalo di mafia-capitale. Nessuno difese il sindaco sulla falsa e pretestuosa storia della Panda rossa, parcheggiata nella Ztl del centro storico, come è diritto di un residente del centro storico. La storia della Panda rossa, sulla base di documenti falsificati, era la vendetta per la battaglia aperta contro l’assenteismo dei vigili urbani. Il maltempo provocò una frana sulla panoramica che da Monte Mario scende a Prati. La strada rimase chiusa a lungo perché il sindaco volle lavori accurati, se possibile definitivi. Così fu fatto e c’è da essere grati ma, allora, tutti si accodarono alle polemiche.
Per il concerto dei Rolling Stones al Circo Massimo, secondo il regolamento vigente, il gruppo rock pagò 8000 euro per l’occupazione di suolo pubblico, il Campidoglio però chiese che fossero gli organizzatori a pagare per 100.000 euro le spese straordinarie per l’evento. Di nuovo, le polemiche sommersero il sindaco, come fosse sua la responsabilità di quella normativa inattuale. La giunta Marino ha in seguito cambiato le regole per l’occupazione di suolo pubblico, portando a 200.000 euro l’affitto del circo Massimo ma anche elevando le tariffe dei camion bar. Ci fu chi, per questa ragione, dai banchi del Pd fece opposizione.
Prima di mafia-capitale, la pressione era rivolta a far assumere la carica di vicesindaco e/o di assessore all’urbanistica al presidente del consiglio comunale Mirko Coratti, poi gravemente coinvolto nell’inchiesta del Mondo di mezzo.
È probabile che Ignazio Marino, nel voler fare di testa sua, nel resistere – talvolta sì talvolta no – ai consigli dei notabili del Pd romano, abbia fatto errori, commesso ingenuità. Ma quella sua cocciutaggine aveva fondamento nella convinzione che si dovesse cambiare anche rispetto alle giunte di sinistra che lo avevano preceduto. Sapeva che era per questo che prima alle primarie e poi nel voto cittadino aveva ottenuto una valanga di consensi.
Ha chiuso la discarica di Malagrotta, la più grande d’Europa. E parallelamente avviato la riforma di AMA che è oggi forte di un contratto di servizio da 800 milioni. Un’azienda ricca che l’amministrazione Raggi ha gettato nello scompiglio per un contenzioso di pochi milioni con lo stesso Campidoglio. Ha scoperchiato il doloroso pasticcio dei Piani di zona, mettendosi dalla parte dei cittadini. Contrastato l’occupazione abusiva degli spazi pubblici.
Contrariamente a Virginia Raggi, non disse no alla candidatura olimpica ma propose progetti innovativi, a nord, lungo la dorsale del Tevere dove il potenziamento del trasporto su ferro è già esistente e dove si sarebbero potute trasferire funzioni importanti per la città. È stato accusato di non avere progetto ma la progettualità in una grande metropoli non si vede dall’oggi al domani, deve essere condivisa. Tanto più a Roma, dove funzioni nuove e forme nuove di reddito devono essere inventate, perché ciò che è entrato in crisi è il suo ruolo di Capitale (per fare un solo esempio di almeno un terzo si è ridotto il numero dei dipendenti dei ministeri). Questa condivisione che a Milano hanno saputo trovare classi dirigenti di destra e di sinistra, a Roma non c’è stata. Ciascuna delle azioni che ho sommariamente citato toccava interessi consolidati ed egoistici per sconfiggere i quali ci voleva molta determinazione. Invece chi avrebbe dovuto sostenere quelle battaglie a Roma diffidava, guardava al “particulare” delle clientele o delle esperienze consolidate, guardava al passato senza considerare i danni prodotti da cinque anni di Alemanno. Una frantumaglia che ha prestato il fianco ai sentimenti antiromani del Nord diffusi anche a sinistra. Sicché oggi ci troviamo a fronteggiare anche “la secessione dei ricchi”.
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