Marescotti, il figlio del 25 Aprile che conquistò il cinema ma diede il meglio a teatro

Ivano Marescotti, morto domenica a 77 anni, era figlio della Resistenza. Non metaforicamente ma nella realtà, nel senso che è venuto al mondo il 4 febbraio 1946, più o meno 41 settimane dopo la Liberazione, il tempo di una gestazione. Nei suoi spettacoli usava spesso questo dettaglio biografico per parlare dei genitori braccianti comunisti, il padre partigiano.

Mi bab e mi mâma é vintizóinc d’âvril j à fat fësta, e alóra a so nêd me (il babbo e la mamma il venticinque aprile hanno fatto festa e allora sono nato io)”. Sapeva trovare le parole giuste per addentrarsi in modo lieve nei meandri del comportamento umano e questo l’ha caratterizzato nel suo lavoro d’attore. Del resto una giovane coppia antifascista, che aveva affrontato i pericoli e le privazioni della guerra, quale altro momento più bello e pieno di speranze per il futuro avrebbe potuto scegliere per fare un figlio?

Ivano Marescotti in “La fondazione”

L’ingresso tardivo nel mondo dello spettacolo

Davanti alla cinepresa, ma prima ancora sui palchi dei piccoli teatri e delle fiere paesane, Marescotti c’era arrivato tardi, letteralmente spinto in scena da un amico, senza una preparazione specifica. Dopo quell’esordio senza rete si era appassionato ai testi dialettali di Raffaello Baldini. Già ottimo cronista a Panorama diretto da Lamberto Sechi, Baldini a Santarcangelo di Romagna aveva dato vita ad un importante sodalizio intellettuale con Tonino Guerra, Nino Pedretti, Gianni Fucci, Flavio Nicolini, Rina Macrelli.

Dunque la scuola di Marescotti è il dialetto romagnolo, anzi i dialetti perché tra la sua Villanova di Bagnacavallo e la Santarcangelo di Baldini c’è un abisso sintattico. La prima capacità di Marescotti è stata quella di destreggiarsi tra i dittonghi, così differenti da isoglossa a isoglossa; la seconda quella di tirare fuori il suo talento nel modo meno lineare possibile; e poi anche quella di sfatare il mitico anatema di Totò: “Nessun attore può venire da Bagnacavallo”.

A 35 anni, nel 1981, faceva il geometra nel Comune di Ravenna ma Baldini lo aveva stregato. Studia a fondo Zitti tutti!, bilancio della vita di un piccolo benestante che non riesce a trovare se stesso e che paga una scappatella extraconiugale smarrendosi.

Ma è La fondazione il testo nel quale Marescotti dà il meglio. Il protagonista è uno svitato che colleziona in modo compulsivo vecchi oggetti inutili, un accumulatore seriale che si mette in testa di creare una Fondazione per tenere viva la memoria delle cose e dei pensieri. Vi si scorge la metafora della vita che passa e del mondo che volta velocemente pagina, dimenticando i più.

Marescotti su La fondazione fa un lavoro raffinatissimo che porta in scena mescolando dialetto e italiano in un testo che dà dignità perfino ai tic umani.

L’incontro con Leo de Berardinis

Poi, anche grazie all’incontro con Leo De Berardinis che tira fuori le sue doti, Marescotti spopola nella recitazione a teatro, è un formidabile attore da monologhi. Però è poco per campare, anche per il migliore. Passano 10 anni prima che il cinema gli apra le sue porte. Lo fa un altro grande romagnolo, Federico Fellini che lo arruola per quattro “pose” in Ginger e Fred. Sul resto della carriera cinematografica, da Soldini a Benigni, da Ridley Scott a Zalone, da Baldoni alla partecipazione in 130 (centrotrenta!) film, ha già scritto su Strisciarossa Alberto Crespi (qui il link) e non occorre aggiungere altro.

Però io sono convinto che la sua immensa bravura l’abbia espressa nel teatro. Il cinema gli dava la pagnotta e la gloria (meritatissime, sia chiaro) e il teatro la soddisfazione e la gratificazione.

Marescotti con Tsipras

Monumentale il suo Dante, un patàca, “adattamento” della Divina commedia a un Dante attuale di Villanova di Bagnacavallo che si ritrova all’improvviso a ripercorrere l’itinerario del Sommo Poeta, con l’aiuto di “Virgilio” il quale parla un linguaggio strano, l’italiano di Alighieri appunto. La grande comicità di Marescotti si innesta nella tragicità dell’universo dantesco in una alternanza tra italiano e dialetto che strega chiunque, anche un siciliano o un alto atesino.

“Patàca” è parola difficile da tradurre dal romagnolo all’italiano, potrebbe voler dire ingenuo o sciocchino ma anche esagerato o contaballe e in genere viene usato con benevolenza e non in modo cattivo come un insulto. Ne scrissi su l’Unità quando di Dante, un patàca Marescotti ci consentì di fare una cassetta VHS allegata al giornale. Del termine “pataca” a partire da quell’articolo se ne interessò, con una ricerca semantica, l’Università dell’Ontario ma siccome mi ero firmato con lo pseudonimo Marco Superbi il mio nome non comparve nella ricerca. “Sei stato un patàca”, mi disse Ivano. Chiaro il concetto?

Il famoso monologo sulla Romagna indipendente

Ma torniamo a Marescotti che dopo Dante passa a tanto altro. L’Ariosto, ad esempio, con Bagnacavàl, una contaminazione tra il basso dialetto romagnolo e l’Orlando Furioso. E poi c’è il famoso monologo sulla Romagna (qui il link a you tube) ai tempi in cui i leghisti ne chiedevano l’autonomia regionale, il cameo che non manca mai, neanche nelle occasioni informali: quindici minuti esilaranti giocati sull’assurdità di un concetto di indipendentismo che riduceva i confini geografici e culturali della Romagna ai minimi termini, fino a casa sua a Villanova di Bagnacavallo, fino alla sua stanza, anzi fino al bagno ma neanche lì il romagnolo indipendentista si ritrovava d’accordo con se stesso…

L’attore con Roberto Morgantini, fondatore delle cucine popolari di Bologna

Fece questa gag anche in un pomeriggio del maggio 2014 quando portai Ivano Marescotti a Bellaria ad un’iniziativa di sostegno al candidato sindaco della lista Bene Comune nata a sinistra di un Pd insopportabilmente renzianizzato. C’era tanta gente, con una cospicua presenza di destra. A quei tempi Ivano era candidato all’Europarlamento con Tsipras e fece una cosa a metà tra il comizio e la recitazione, poi ad un certo punto iniziò il suo monologo sulla Romagna e alla fine raccolse un’ovazione trasversale, compresa quella dei leghisti che probabilmente ci avevano capito poco. La lista Bene Comune prese il 4%, Marescotti raggiunse un significativo risultato in termini di preferenze che non bastò ad eleggerlo all’Europarlamento. Piazze piene urne vuote, come diceva Nenni.

Da lì la sua parabola politica, che l’aveva visto anche membro dell’assemblea regionale del Pd dopo il Lingotto, avrebbe assunto una traiettoria che ci ha fatto battibeccare via social. Si era schierato “da sinistra” con i grillini nel 2018, salvo capire che tra lui, Di Battista e Di Maio c’era un abisso valoriale. Aveva poi dato fiducia a Conte lo scorso 24 settembre per mancanza di alternative di sinistra. Suppongo che avrebbe guardato con interesse al Pd di Elly Schlein dopo le patàcate fatte dal partito da Renzi in poi.