Mai con i populisti:
la lezione di Engels
oggi parla al Pd

Errori strategici, quindi non tutti correggibili in corso d’opera, precipitano nel voto umbro che vede un successo della destra radicale ancor più allarmante perché riscosso in coincidenza con un ampliamento della partecipazione elettorale. Il primo dato da cogliere è che anche in tempi di tweet, comunicazione irreale, chiacchiera è arduo passare dal rifiuto categorico di ogni alleanza a una operazione parlamentare di conquista del governo che in tempi celeri andrebbe peraltro trasformata anche in un grande accordo di programma.

Il governo con i grillini è stato una sorta di eccesso di legittima difesa costituzionale. La volontà di potenza di Salvini andava di sicuro arrestata, ma bastava per compiere con efficacia l’impresa un brevissimo governo presidenziale di tregua per il ristabilimento della norma, non era in alcun modo indispensabile alimentare la leggenda di un governo addirittura “di svolta” (con Di Maio e Conte!) senza passare attraverso una preliminare investitura politico-programmatica da parte del popolo.
Forte del buon risultato ottenuto alle europee, e incassando i vantaggi della decomposizione del governo gialloverde, Zingaretti avrebbe dovuto mostrare la stoffa di un leader politico chiamato a dare battaglia. Ha invece ceduto alle pressioni interne di un personale governista di professione e di ceti politici “di sinistra” mentalmente stanchi, e senza le categorie per leggere la fase politica di oggi al riparo di cose già fatte e viste. In tanti hanno nel tempo maturato una sorta di sindrome di Stoccolma che li induce a vedere nei propri aguzzini del 2013 la porzione salvifica per la rigenerazione della democrazia repubblicana.

Accettando la sfida di allestire una coalizione combattiva con la sinistra sociale e politica larga, il Pd avrebbe certamente potuto subire una sconfitta ma Zingaretti, con la decisione di dare battaglia per un progetto, avrebbe ridimensionato il ruolo di Renzi, avrebbe distrutto, come merita, il pasticcio ideale chiamato M5S e avrebbe mobilitato energie sociali e culturali in una lotta dalla grande valenza democratica, identitaria e sociale. Accettando l’invito “a fare politica”, e quindi a entrare al governo con i protagonisti del vecchio “contratto”, Zingaretti ha reciso la propria leadership e ha ricostruito tangibili nemici con i quali dovrà competere per la sopravvivenza: Renzi, Conte, oltre alla destra.
Una catastrofe tattica e un blocco strategico inaudito perché in certi passaggi critici non si sfonda nel gradimento popolare senza una tangibile volontà di lotta dall’esito non scontato. Per la preventiva rinuncia alla contesa, il Pd con Leu si trova ora nella poco invidiabile condizione di non poter andare avanti, per l’eterogeneità evidente di programmi e stili politici che costringe al lento logoramento l’esecutivo, e di non poter neppure a cuor leggero interrompere bruscamente il rapporto del governo “dettagliatissimo”, per non precipitare in situazioni di netto svantaggio competitivo. Un capolavoro di tattica, senza dubbio, accentuato dalle disinvolte investiture di Conte (!) come candidato naturale in caso di battaglia elettorale anticipata.

Il Pd e Leu hanno, verso il M5S, seguito la linea di Lafargue e di certi blanquisti francesi e non hanno dato ascolto alle più riflessive parole di Engels. Sul rapporto da tenere con i populisti si consumò infatti una rottura significativa tra Lafargue e Engels nei primi anni ‘90. Dinanzi al movimento populista raccolto attorno al generale Boulanger (sul quale anche Gramsci scriverà le sue riflessioni più significative su come interpretare i fenomeni populisti), la linea di Lafargue era quella di mescolare i popoli dei due campi. Il movimento ribelle capeggiato da un leader ambiguo e grottesco andava corteggiato perché, malgrado la sua fede superstiziosa nel capo-salvatore che denunciava la corruzione dei politici, il populismo del generale catturava anche un consenso di sinistra e radicalizzava istanze antiparlamentari condivisibili.

Un arrabbiato Engels si sfogò con la figlia di Marx sull’incredibile tratto impolitico di una infatuazione per un generale al soldo russo che “inganna le masse”, e da autentico “chiacchierone” e “bugiardo costituzionale” riscuote sostegni trasversali con sparate assurde. Con vero fastidio Engels ce l’aveva con “i ragazzi che si sono avvicinati a Boulanger compiendo un tradimento imperdonabile” (Marx-Engels, Werke (MEW) – Band 38, Berlin, 1979, p. 302). Molto duro è il giudizio e senza appello. “Non posso fare a meno di colpire queste persone con uno speciale disprezzo, esse si lasciano attirare da una trappola, non importa per quale pretesto. Nulla ha danneggiato la reputazione dei francesi all’estero più di questo folle entusiasmo per un nuovo salvatore della società, e un altro ancora! E non solo il borghese, ma anche la grande massa della classe operaia si è inginocchiata davanti a questo chiacchierone! Come può una persona di buon senso fidarsi delle persone che hanno legato il loro destino a quel jouisseur?”

Dinanzi alla crisi e al discredito del gaudente capo populista, è giusto porsi il problema di come raccoglierne i consensi ma questo, suggeriva Engels, riguarda i singoli e non prevede accordi siglati tra gli stati maggiori secondo “i gradi che avevano bella banda boulangista”. Costituire alleanze in parlamento con un movimento in decadenza, che “sarà quasi sicuramente espulso dalla camera alle prossime elezioni”, comporta per un partito operaio un forte discredito per la convivenza molto problematica con gruppi che in aula presentano “le risoluzioni più insensate”. La domanda di Engels (“vale la pena identificarsi con loro?”) si accompagna ad una constatazione amara di atteggiamenti “inaffidabili”. Dopo l’improvvisazione nel segno di Lafargue e della leggenda di un M5S come popolo di sinistra da ricondurre sulla retta via, la sinistra dovrebbe ripartire dalla saggezza analitica di Engels.

Come ha acutamente osservato su queste colonne Michele Ciliberto, l’abbandono del Pd da parte di milioni di elettori non si cura con scaltri accordi parlamentari siglati nel solco del trasformismo anche perché l’odio coltivato contro il tradimento dei chierici (non solo) fiorentini è tale che la vecchia casa non esercita più alcuna attrattiva. La divisione del lavoro per cui il Pd coltiva il centro intellettual-benestante e il M5S si dedica alla rappresentanza delle periferie arrabbiate è grottesca anche perché il grillismo ha perso quella carica ribelle. Il “popolo” che la sinistra dovrebbe riconquistare più che al M5S allo sbando guarda da tempo a Salvini e alla destra più radicale.

La prospettiva di rifugiarsi per alcuni anni ancora nelle stanze del potere, mentre nelle elezioni regionali cresce l’onda sovranista che reclama il voto contro il palazzo, è una vera sciagura dagli elevati costi sistemici. I realisti che per bloccare Salvini hanno preparato questa frittata di un governo dall’alto, condiviso tra partito dell’ordine e non-partito del disordine, tra sentinelle del sistema e guastatori anti-sistema, ignorano che i voti non sono cumulabili e che l’addizione aritmetica di sigle non produce un automatico consenso. Nessuno è padrone di un pacchetto di voti, e quelli di sinistra andati al M5S non sono nella disponibilità di Casaleggio, vanno conquistati con la grande proposta politica, non con le alleanze difensive tra ceti politici impauriti.

Non è dal governo, e fuggendo dalla fatica della riflessione e dalla mobilitazione di forze sociali, che si recupera consenso di massa e si argina il fantasma del capitano. Occorre davvero “fare politica” e cioè riscoprire una funzione, riconquistare territorio reale dopo la lunga fuga, proporre una analisi critica del presente dopo il chiacchiericcio della comunicazione, insomma ricostruire una identità del socialismo possibile. Non è con la pura politica-amministrazione, con il super-ticket e i cunei fiscali, con il tono manettaro-moraleggiante sulla evasione, che si argina il dialetto distruttivo della destra incombente senza infingimenti con le sue bandiere e esibizioni identitarie.