A Madrid il governo di Mariano Rajoy ha deciso di fare ricorso all`articolo 155 della Costituzione e ha revocato una serie di prerogative della Generalitat della Catalogna, il governo regionale autonomo, dopo i risultati del referendum per l`indipendenza. Carles Puigdemont, capo del governo destituito di Barcellona, si trova al momento in Belgio e è disposto a rispondere alle domande dei magistrati spagnoli solo via videoconferenza; continua a definire il suo come “l’esecutivo legittimo della Catalogna”. La vicenda catalana divide l’opinione pubblica e la sinistra, e ha provocato una discussione vivace anche fra i collaboratori di strisciarossa.it. Ne diamo conto pubblicando una lettera di Luis Cabasés a Paolo Soldini, che difende le ragioni di Puigdemont, e la risposta di Soldini che le contesta.
La lettera di Cabases
Soldini nel suo articolo del 28 ottobre ‘Madrid-Barcellona, crisi che riguarda l’Europa’ dice delle cose sostanzialmente condivisibili in merito al ruolo europeo, tutto sommato in linea con l’analisi espressa nel mio articolo ‘La Catalogna, l’Europa e i due leader in carcere’.
L’unica cosa sulla quale sbaglia – capisco anche che spesso le informazioni che giungono siano frutto di accavallamenti di fonti – è quando dice che i “rapporti tra le regioni e gli stati e tra gli stati e gli stati basati non sul dialogo e sulla diplomazia, ma sulla forza delle proprie ragioni contro quelle degli altri” non possono che ”portare al disastro”. Mi spiego meglio: è giusto ed opportuno che si applichi tale forma, ma nella cronaca dei giorni passati la richiesta di dialogo in cambio della non proclamazione della Repubblica Catalana è stata reiterata da Puigdemont sempre e fino alla fine. Il giorno prima della proclamazione dell’indipendenza, il presidente catalano ha dichiarato di voler sciogliere il parlamento e di andare ad elezioni in cambio del dialogo e di una trattativa ad un tavolo. Le condizioni erano sostanzialmente ispirate a una linea precisa: rassereniamo gli animi e parliamo. Come? Liberando i due prigionieri accusati di sedizione, facendo ripartire da Barcellona uno schieramento eccessivo di poliziotti, aprendo un dialogo.
La risposta per l’ennesima volta è stata un no rotondo di Rajoy. Non è stata la piazza a costringere Puigdemont a tornare sui suoi passi, ma una volontà di dialogo, frustrata ormai da anni, di reiterate risposte negative, dalla mutilazione dello statuto di autonomia del 2006, dalla costante azione demolitrice del governo e del suo braccio operativo, che è il tribunale costituzionale spagnolo, anche su leggi ordinarie catalane come, per esempio, sulle energie alternative e sull’istruzione.
Il Partido Popular – ahimé con l’appoggio dei socialisti del PSOE perché quello del PP è un governo minoritario – sta attuando una strategia che vuole riportare il controllo di tutta la Spagna in un solo luogo, frustrando le autonomie locali. Lo si evince anche dalle minacciate applicazioni dell’articolo 155 della costituzione spagnola, quello che ha sospeso gli organi di governo catalano e tante altre cose, anche per la Navarra, Euzkadi e Castilla-LaMancha, guarda caso dove il PP è all’opposizione. Non credo di dover citare Andreotti e il “a pensare male si fa peccato…”
La risposta di Soldini
Sinceramente non mi pare che le cose che ho scritto nell’articolo “Madrid-Barcellona, crisi che riguarda l’Europa” siano “tutto sommato in linea con l’analisi espressa” da Cabases nel suo articolo. Lui nel suo scritto sosteneva che Jorgi Sanchez e Jorgi Cuixart fossero “prigionieri politici”, il che, secondo me, induce a una grave confusione. Per quanto arbitraria, ingiusta, sproporzionata si voglia considerare la detenzione dei due Jorgi, essa è stata disposta dalla magistratura e sulla base di un articolo del codice penale: fino a prova contraria Sanchez e Cuixart sono stati arrestati per quello che hanno fatto, non per quello che sono, o che hanno detto, o che pensano.
Le parole sono importanti: parlare di “prigionieri politici” sottintende un giudizio sulla natura del potere che commina la pena, perché per definizione i “prigionieri politici” possono esistere soltanto nelle dittature e io non credo che in Spagna ci sia una dittatura. Si ammetterà che non si tratta di un dettaglio. È una questione della quale in Italia abbiamo una certa esperienza: erano i terroristi (delle Brigate Rosse ma non solo) a definirsi “prigionieri politici” e a dirsi in guerra contro lo Stato. Lo Stato li sconfisse proprio perché rifiutò di accettare la loro logica: non scese in guerra ma li combatté e, sia pure con qualche strappo, li giudicò per gli atti criminali che compivano. È il motivo, sia detto per inciso, per il quale chiediamo che Cesare Battisti venga estradato in Italia: non è un “esule politico”, perché oggi in Italia non c’è una dittatura e non c’era neppure quando lui commise gli omicidi per cui è stato condannato. È un ergastolano evaso.
Cabases dice che “l’unica cosa” (bontà sua) sulla quale sbaglio, forse perché ci sono “accavallamenti di fonti” (?), è di sostenere che “i rapporti tra le regioni e gli stati e tra gli stati e gli stati basati non sul dialogo e sulla diplomazia, ma sulla forza delle proprie ragioni contro quelle degli altri” non possono che “portare al disastro”. E che c’è di sbagliato? Non è proprio quello cui stiamo assistendo nella vicenda catalana? Nell’affermare le proprie ragioni contro quelle degli altri il governo di Mariano Rajoy ha molte colpe, antiche e recenti, e ha dato al mondo un tristissimo spettacolo di prevaricazione con le violenze della Guardia Civil il 1° ottobre. L’applicazione dell’articolo 155 è una sconfitta del metodo del dialogo, un inedito nell’Unione europea ed è una minaccia implicita per i movimenti autonomisti fuori della Catalogna, dai baschi ai galiziani.
Ma Puigdemont, il suo governo e la maggioranza indipendentista nell’assemblea catalana non hanno anch’essi affermato le proprie ragioni contro quelle di altri? Non hanno indetto un referendum sapendo da spagnoli (perché tali erano e sono), che era incostituzionale? Non hanno preteso che l’esito di quel referendum fosse “vinculante” e cioè non potesse essere oggetto di alcun negoziato con Madrid e dovesse determinare automaticamente e subito i propri effetti? Non hanno preteso di affermare che il popolo aveva deciso per l’indipendenza quando a votare erano andati a votare meno della metà degli elettori catalani? Ci sono dei sondaggi secondo i quali la maggioranza degli abitanti della regione sarebbero contro l’indipendenza. Anche se fossero sbagliati, si ammetterà che esiste comunque una grande quantità di catalani che vogliono restare con la Spagna. Il loro diritto chi lo rappresenta?
Madrid ha le sue colpe e farebbe bene a correggerle, ma è stato l’avventurismo di Puigdemont, del suo governo, della maggioranza del parlamento di Barcellona a far precipitare una crisi della quale non si vede il punto di uscita. E che rischia di fare molto male ai catalani. A tutti: unionisti e indipendentisti.
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