Macron non convince Xi, non parte la “mediazione cinese”
Il più diffuso giornale d’informazione francese raccontava ieri la visita di Emmanuel Macron a Xi Jinping sotto un titolo che diceva come le proteste contro la riforma delle pensioni abbiano dominato l’attenzione del presidente anche laggiù in Cina. Basterebbe questo a significare il senso di quello che è accaduto tra Pechino, dove monsieur le Président è stato accolto con tutti gli onori (ben più della presidente della Commissione europea, ha fatto notare qualche lingua malevola), e Guangzhu, la capitale del Guangdong, la regione all’avanguardia dell’economia rampante e ingorda di commesse occidentali dove ieri Macron e Xi hanno avuto il loro secondo tête-à-tête. E il senso è risultati zero per quanto riguarda l’esito dei colloqui sulla fantomatica “mediazione cinese” nella crisi ucraina.
Trattative sulla Crimea?
Molti osservatori pensavano che magari proprio una svolta no, ma qualche piccolo passo in avanti si sarebbe visto. Invece, paradossalmente le speranze fievolissime sull’inizio d’una minima parvenza di ragionevolezza tra le parti in guerra sono venute non da Pechino ma proprio da Kiev e da Mosca. Nella capitale ucraina dall’entourage di Zelensky si è fatta balenare la possibilità di trattative sulla sistemazione della Crimea una volta, s’intende, che l’eternamente “imminente” controffensiva abbia ricacciato i russi dalla regione. Poi il portavoce del presidente ha precisato – è vero – che la posizione non è cambiata rispetto alla volontà di riconquistare i confini prima del ‘94, ma l’uscita del suo vice testimonia almeno che nelle stanze del potere a Kiev c’è qualche consapevolezza del fatto che forse i russi qualche diritto sulla Crimea potrebbero averlo.
“Qualche consapevolezza”, “forse”, dichiarazioni che pur venendo da fonti ufficiali paiono voci dal sen fuggite e pronte smentite…L’estrema prudenza con cui gli osservatori sono costretti a muoversi nel campo minato dell’eventualità di futuri negoziati per la pace o quanto meno un cessate-il-fuoco vale anche, e forse di più, per il Cremlino dove un viceministro degli Esteri ha acceso qualche speranzoso stupore dichiarando che “non ci sono precondizioni all’apertura di negoziati con Kiev” per aggiungere poi – prima che lo licenziassero – “tranne che la dimostrazione di buona volontà da parte degli ucraini” e rientrare così dentro le trincee della propaganda moscovita.
Da Pechino, invece, niente. Del citatissimo, in altri momenti, “documento di posizione” cinese spacciato frettolosamente come piano di pace si sarà certamente parlato nei momenti riservati degli incontri ufficiali, ma l’unico cenno pubblico che il presidente francese e Xi ne hanno fatto riguardava il capitolo sulla necessità del bando all’uso delle armi nucleari. Tutti e due lo hanno richiamato con una enfasi dietro alla quale si nascondeva probabilmente qualcosa di più serio e meno scontato di una raccomandazione generica erga omnes, probabilmente la preoccupazione concreta che nell’escalation delle armi nel conflitto qualcuno (certo più i russi che gli ucraini) possa cedere alla tentazione di servirsi di armi nucleari tattiche o comunque strumenti non convenzionali.
Rispetto della sovranità
Silenzio invece sull’incipit del documento, quel primo punto in cui si predicano il rispetto della sovranità degli stati e il divieto di violarla che è sicuramente piaciuto ai dirigenti di Kiev e fatto sperare, durante la visita di Xi a Mosca, che avvenisse la telefonata diretta del cinese con Zelensky. Quella sì che avrebbe potuto segnare l’inizio serio di una effettiva “mediazione cinese”. La telefonata non c’è stata. Zelensky continua a chiederla e Xi, anche con Macron, a non escludere che prima o poi si farà. Ma il primo punto del piano resterà lettera morta nelle cancellerie occidentali finché Pechino – come il francese ha ribadito molto chiaramente a nome di tutti – non accompagnerà la sua presa di posizione di principio teorica con una concreta condanna di chi quella violazione l’ha compiuta nei fatti, cioè non criticherà esplicitamente la guerra di Putin.
Multilateralismo
Non c’è dubbio che si tratti di una richiesta più che legittima e sensata, anche per allontanare il sospetto che dietro quelle formulazioni cinesi sulla sovranità degli stati si celi una trappola raffinata per ribadire i diritti cinesi su Taiwan (la cui pretesa di indipendenza è considerata da Pechino una violazione della sovranità della Repubblica Popolare). Ma, almeno in questa fase, è ben difficile che Xi Jinping e la sua diplomazia possano accettarla. Non solo perché il rifiuto del disancoraggio dalla entente cordiale con la Russia al momento si fonda su ragioni ben più forti dei tanti e seri motivi di frizione che pure esisterebbero tra i due paesi e in ogni caso sotto il profilo economico e commerciale non converrebbe alla Cina che nella partnership ha una chiara posizione di forza, ma anche perché l’amicizia cementata dall’esistenza del comune nemico e dai disegni americani di trascinare la NATO in iniziative out of area nell’Indo-Pacifico ha anche una dimensione, diciamo così, “ideologica” sulla quale nei colloqui di Mosca i leader cinesi e russo hanno molto insistito: il cosiddetto multilateralismo.
Che a farsi paladini di un ordine internazionale multipolare e non dominato dalle grandi potenze e dalle loro alleanze siano proprio i capi della Russia, che ha invaso un paese vicino, ne minaccia altri col suo micidiale arsenale militare e mostra una totale indifferenza alle condanne delle Nazioni Unite, e della Cina, che pratica forme di imperialismo economico in vaste aree dell’Africa e dell’Asia, è una gigantesca contraddizione, ma non dovrebbe impedire che una discussione su un nuovo ordine mondiale, a cominciare dalla riforma dell’ONU, prendesse corpo anche nei paesi occidentali, a iniziare da quelli dell’Unione europea.
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