Ma sì, cari amici
i sovranisti
hanno perso
Credo di essere tra quelli che hanno scritto fino alla noia (soprattutto dei lettori) sulla crisi della sinistra europea e sui sempre più magri risultati dei partiti socialisti, laburisti e socialdemocratici negli ultimi mesi e negli ultimi anni. Elezione dopo elezione, ho pianto sui tasti del computer raccontando di come e quanto le varie sinistre andavano perdendo il contatto con le masse popolari. Ho espresso la mia sofferenza di fronte alla loro tragica rinuncia a una qual che fosse egemonia in materia di politiche economiche, nazionali ed europee. Al loro pavido rinserrarsi, salvo lodevoli ma poche eccezioni, nel comodo mainstream del pensiero unico economico: il mercato è tutto, la politica segua senza fare tante storie.
Finlandia e Danimarca
Ora accade che in Finlandia si formi un governo di centrosinistra, dopo una lunga egemonia della destra con toni fortemente monetaristi e neoliberisti e che in Danimarca vincano nettamente i socialdemocratici ribaltando un governo liberale di destra appoggiato dai populisti e trascinando avanti tutti i partiti di sinistra, dai socialisti massimalisti agli ex comunisti ai verdi. In questi due paesi del nord Europa, come, almeno nelle recenti elezioni europee, in Svezia e soprattutto nei Paesi Bassi, la destra nazional-populista-sovranista arretra in modo abbastanza clamoroso rispetto ai risultati, anch’essi clamorosi, che aveva ottenuto recentemente nelle elezioni nazionali. L’avanzata delle forze sovraniste, in termini di seggi, al parlamento europeo è stata molto inferiore alle aspettative ed è dovuta quasi tutta al successo di Salvini in Italia (che ha origine e aspetti molto “italiani” alla cui analisi partiti, politologi e commentatori si stanno dedicando qui da noi) e all’exploit di Nigel Farage che è figlio delle contorsioni della Brexit e che ha conseguenze molto effimere visto che i deputati che ha portato a Strasburgo scompariranno quando, in un modo o nell’altro, la dipartita della Gran Bretagna arriverà a compimento. Quindi mi pare assolutamente fondata, persino un po’ banale, l’osservazione secondo la quale c’è stato un “fallimento” dell’offensiva sovranista in Europa.
Non la pensano così Mattia Zulianello e Paolo Borioni, che nei loro commenti pubblicati nei giorni scorsi su strisciarossa sostengono che il “contenimento” dell’estrema destra da parte delle forze democratiche ed europeiste in realtà non c’è stato. Che il fallimento dei sovranisti è una sorta di (pericolosa) illusione ottica, una forma di autoconsolazione da anime belle.
Per dare fondamento a questa tesi, il primo avanza la previsione che tutte le forze sovraniste e/o populiste di destra confluiranno alla fine in un unico gruppo parlamentare il quale, sommando tutti i deputati con quell’orientamento, avrebbe effettivamente una certa forza numerica. I fatti, però, smentiscono questa ipotesi. Due dei possibili componenti dell’ipotetico gruppone dell’estrema destra, il Brexit Party di Nigel Farage e Fidesz di Viktor Orbán, hanno detto chiaro e tondo che non hanno alcuna intenzione di confluire in un simile gruppo. Ma soprattutto l’ipotesi di una union sacrée di tutte le destre europee era già naufragata – anzi: non era mai veramente esistita – ben prima delle elezioni e non sarebbe stato difficile accorgersene se si fosse seguito con attenzione il faticosissimo, e alla fine inutile, lavorìo per cucire alleanze cui Salvini e, sul suo versante e ancora più penosamente, Di Maio si erano dedicati nelle settimane e nei mesi precedenti il voto. Il problema, detto semplificando in modo un po’ brutale, è che l’unione tra partiti nazionalisti è un’insanabile contradictio in terminis.

Il crollo? C’è stato
Il secondo, Borioni, sostiene che non si può parlare in Danimarca di un “crollo dell’estrema destra” considerando che alle perdite del Partito del Popolo Danese, la formazione populista che appoggiava il governo guidato dal liberale di destra Lars Løkke Rasmussen, ha fatto riscontro la crescita di due partiti esplicitamente razzisti come i Nuovi Borghesi e lo Stram Kurs. Tesi un po’ ardita considerando che il partito del Popolo ha perso dodici punti percentuali (scendendo dal 21 al 9%) mentre i due partitini di cui sopra ne hanno presi insieme 4,2 (2,4 il primo e 1,8% il secondo). A questo si accompagna un ridimensionamento del partito guida del governo Rasmussen, che era anch’esso orientato molto a destra.
Sembra insomma di poter dire che i numeri, almeno stavolta, premiano più la sinistra che la destra. Il che deve aver un po’ spiazzato la propensione al pessimismo programmatico indossato come un abito professionale da molti osservatori e commentatori di sinistra.
Se invece si va al di là dei numeri, bisogna riconoscere che tanto Zulianello che Borioni indicano in un altro, più solido, ordine di categorie di analisi la consistenza del pericolo rappresentato dalle nuove destre populiste e sovraniste: la loro capacità di condizionare il pensiero e l’azione delle forze democratiche e anche della sinistra.
Qui la loro denuncia va presa molto seriamente. C’è una sorta di “entrismo” delle idee di destra nella cultura democratica che è particolarmente percepibile su alcuni grandi temi, primo fra tutti l’immigrazione. Come scrive Zulianello, “anche nei rari casi dove i partiti tradizionali del centro-destra e centro-sinistra sono riusciti a sottrarre voti ai competitori” dell’estrema destra (ma questi casi non sono affatto rari, come abbiamo visto n.d.r) “è più appropriato parlare di una vittoria di Pirro, poiché è stata conseguita seguendo una strategia ‘copia e incolla’ incentrata sulla ricezione di diverse proposte e narrazioni tipiche della destra radicale populista” in fatto di immigrazione e asilo politico. E secondo Borioni, in materia di politiche verso migranti e stranieri “i temi del nazional-populismo sono ampiamente diffusi in tutto lo spettro politico, a partire dai liberal-conservatori classici”. La stessa influenza negativa il pensiero dell’estrema destra può esercitare su altri temi, come la sicurezza o la meritocrazia ad esempio, e produrre una forma di egemonia culturale non dissimile, in fondo, da quella che l’ultraliberismo economico ha imposto sul terreno economico e finanziario.
Contaminazione
Dell’esistenza di un simile pericolo di “contaminazione”, diciamo così, ci sono ampie prove. Anche in Italia, come certi indirizzi dell’ultimo governo di centro-sinistra dimostrano spiacevolmente. Talvolta il loro carattere controproducente appare con tanta evidenza che ci si sottrae rapidamente al gioco. È accaduto in Germania dove la CSU ha capito che l’inseguimento di Alternative für Deutschland sul terreno della xenofobia e del razzismo portava solo guai. Ma l’eventualità che anche nel parlamento europeo i moderati del gruppo PPE, nel quale oltretutto potrebbe rientrare a settembre la “sospensione” decretata a suo tempo di Fidesz, il partito di Orbán, possano essere sensibili alle lusinghe dell’estrema destra, sull’immigrazione o sull’atteggiamento su diritti civili sensibili, non si può certo escludere.

Nella sua analisi del voto danese Borioni accenna però anche alle medicine possibili per questa malattia. Il partito socialdemocratico guidato da Mette Frederiksen ha adottato nel programma diverse misure di gestione “severa” dell’immigrazione per quanto riguarda gli ingressi nel paese, ma non “copia” la destra: respinge i propositi di ghettizzazione, addirittura in un’isola in cui deportare gli stranieri, che il governo Rasmussen era stato in procinto di realizzare e punterebbe a “contrattare con paesi terzi l’accoglienza delle quote di rifugiati riservate alla Danimarca”. Questa accoglienza non sarebbe più “intesa come fase di smistamento verso la Danimarca stessa, ma come soggiorno definitivo la cui qualità sarà garantita dalle risorse e dalla sorveglianza danese”. Un po’ come ha fatto il governo di Angela Merkel con la Turchia, magari però con maggiori garanzie sul trattamento da riservare ai profughi.
Quanto alle politiche economiche e sociali, è evidente che lo spostamento a sinistra dell’equilibrio politico in Danimarca non avrà solo vantaggi per i ceti popolari, ma contribuirà a sgretolare la montagna di luoghi comuni e di interessi privilegiati della politica europea nel segno del liberismo. La Danimarca è un piccolo paese, ma fa parte di un “fronte del Nord” che, dalla Finlandia ai Paesi Bassi, sta passando al recupero dei valori che furono propri del welfare nordico prima che anche la sinistra cadesse nell’egemonia del pensiero unico economico.
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