Ma perché nel Pd c’è chi pensa che
D’Alema abbia la peste?

A scanso di equivoci: nei due decenni in cui mi sono occupato di politica estera come inviato speciale e come editorialista ho conosciuto tutti i nostri ministri degli Esteri tranne uno, Massimo D’Alema. Né lui né alcuno dei suoi collaboratori: semplicemente, non è capitato. Fatta questa premessa, e aggiunto che non sono mai stato comunista né ho mai militato nel Pci, devo dire che trovo sconcertante il digrignar di denti che il nome di D’Alema suscita nel pd. Dal ‘vade retro Satana’ dei renziani fino al garbato ripudio di Gentiloni, il messaggio che il partito manda all’ex premier è: non ti avvicinare.

Ora, D’Alema non ha, al contrario di tanti poltiici di primo piano, conti aperti con la giustizia. E bene o male è stato con Prodi l’ispiratore dell’ultima rilevante iniziativa di politica estera di cui l’ìItalia sia stata capace, la missione Onu in Libano, tredici anni fa. Si è scelto collaboratori talvolta pessimi, è stato molto spregiudicato nella gestione del potere, ha commesso errori strategici: ma questo si può dire di tantissimi. Sicchè non è chiaro quale sia la peste di cui D’Alema è portatore sano, quale la colpa inemendabile che non gli permetterebbe di rientrare, ove mai ne avesse voglia, nella comunità etica fino a ieri guidata da Matteo Renzi. Dopo tutto, chi lo accusa di intollerabile slealtà per aver brindato alla sconfitta del Sì nel referendum ha liquidato prima il sindaco Marino e poi Letta con i metodi che sappiamo, e senza che i ranghi del renzismo, inclusi quelli oggi con Zingaretti, avanzassero alcuna obiezione. Chi gli contesta gli errori non ha mai ritenuto di doversi giustificare per i disastri che hanno condotto il Pd alla più grave sconfitta della sua storia. E chi lo ricorda incapace di fermare Berlusconi oggi non pare escludere alleanze con Forza Italia.

Insomma c’è qualcosa che stride in questa animosità contro il terribile Baffino. Qualcosa che, temo, racconti del Pd e della difficoltà che incontreranno Zingaretti e Gentiloni se tenteranno davvero di rifondarlo.

Ovviamente maramaldeggiare ha un ritorno. Per i renziani D’Alema è il capro espiatorio sul quale caricare la sconfitta nel referendum e la disfatta elettorale, e perfino quel vecchio modo di fare politica praticato da Renzi con inarrivabile cinismo. Poi ci sono gli ex renziani ora con Zingaretti: non vedono alcuna convenienza nel proporre un giudizio più generoso di quello che a suo tempo condivisero con il Rottamatore, tanto più perché D’Alema non piace ai giornali di riferimento e ad un paio d’influenti ambasciate. Infine c’è la sinistra zingarettiana, che deve ancora trovare un’identità e nel frattempo non vuole perdersi in scontri non necessari con gli avversari interni. Controvento, di conseguenza, finora nessuno.

Da spettatore esterno immagino che un certo conformismo, un certo cannibalismo, siano consustanziali alla politica. Però in questo caso a me pare sia in gioco anche lo stile del Pd, che mi pare del tutto simile allo stile della politica italiana. Ci siano o no motivi per rimpiangere la sinistra che fu, si deve ammettere che lo stile di una parte dei suoi gruppi dirigenti (i Ruffolo, i Tortorella) oggi non trova equivalenti in un Parlamento il cui tono generale mima quello dei talk-show, dove nessuno ha niente da dire ma tutti cercano di farsi notare con alterchi chiassosi, con uno strepitare contro gli avversari idoneo a simulare sentimenti morali. Stile, cultura e intelligenza non possono essere trasmessi nelle teste mediante imposizione delle mani, però la meschinità andrebbe frenata. Non è un bel biglietto da visita e porta a scegliersi nemici finti lì dove occorrerebbe unire le forze per combattere i nemici veri.