Ma dopo l’agguato
di Renzi ora è il Pd
che rischia grosso
In una politica senza più pensiero, analisi, prospettiva contano molto le ambizioni personali, i calcoli anche spregiudicati, i vantaggi del momento. E Renzi nel gioco tattico, nella contesa che con il ricatto o l’ammiccamento si spinge sino a far saltare il tavolo, è indiscutibilmente un artista che non ha trovato rivali nel quadro politico odierno. Chi ha voluto imbonirselo con il dono di una maglietta o cambiando lo statuto è stato infilzato senza remore. Avranno migliore sorte i registi post-ideologici dell’arruolamento dei costruttori?
Non ha una morale Renzi, non è bloccato cioè da un residuo senso del dovere verso una qualche entità collettiva. In una politica senza radici e case ospitali tutto è diventato evanescente. E quindi il peso della tradizione, il richiamo del progetto nulla contano in un politico che agisce secondo uno stile neorinascimentale che non disdegna agguati, trappole utili per creare influenza. Qui e adesso si decidono le sorti della fazione e la carriera del suo capo. C’è dunque qualcosa di antico nelle sue azioni, una cattiveria politica allo stato puro concepita nel tempo del tweet e del virtuale.
Un destino legato al logoramento del Pd
Per un obiettivo tattico (prendere tempo, quello indispensabile per compiere un’operazione che serbava in mente: il partito personale) Renzi ha imposto la formazione del governo con i grillini. Contava, con questa mossa imprevedibile, di screditare Zingaretti che, con la sua parola d’ordine di lotta contro i due populismi, aveva appena incassato una buona affermazione alle europee. Se fosse stato un leader ambizioso (nel senso gramsciano) dinanzi alla caduta del governo gialloverde, Zingaretti avrebbe osato. Non lo ha fatto lasciandosi intrappolare da chi ha imposto l’immunizzazione del capitano attraverso una metamorfosi tutta parlamentare.
Renzi sa che il suo destino è in maniera indissolubile legato al logoramento del Pd. Il suo auspicio, al momento della caduta di Salvini, era che, costringendo il Nazareno ad incassare il colpo di un Conte bis, si sarebbe ridestata quella patina etico-politica che spingeva la società civile al mugugno contro la spregiudicatezza dei vertici che inducevano a ingoiare sempre nuovi rospi. E in questo si è sbagliato, ingannato forse dalle pedate che ha subìto perché dipinto come corpo estraneo, un intruso. Proprio i settori della politica moralizzante e i nipotini dell’azionismo hanno santificato il camaleontico avvocato del popolo assunto come risorsa ideale irrinunciabile.
Con Conte è accaduto qualcosa che Renzi non riesce a spiegarsi. Un avvocato venuto dal nulla, che diventa l’interprete valido per tutte le stagioni della politica, mai avrebbe potuto, alla luce del buon senso politico, stringere una connessione sentimentale con la sinistra. E invece i tempi sono cambiati al punto che l’avvocato con la sua prosa sgangherata seduce (non solo) il ceto politico del Pd ma anche una certa opinione pubblica che si riscalda con le parole guerriere che Il Fatto dedica al rottamatore “inquisito” e alla sua “banda”. E’ accaduto con Conte qualcosa che è difficile spiegare. E’ come se Togliatti avesse eletto Tambroni a leader del progressismo dopo che la mobilitazione di massa aveva costretto il democristiano a sloggiare da Palazzo Chigi per lo scandalo dell’appoggio missino al suo governo.
Dopo aver fatto di tutto per accreditare l’immagine di un Pd acefalo, e controllato da una accozzaglia di gente senza principi, Renzi deve fare i conti con i risultati della sua strategia e valutare i tempi e le conseguenze delle scelte corsare. Il logoramento del Pd c’è stato (perdita di Marche e Umbria), e i grillini non sono riusciti ad arrestare il declino. Insieme sono dati al 32 per cento, meno di quanto avesse il solo non-partito di Grillo. E però la crisi dell’alleanza di governo ispirata ai precetti del “populismo gentile” (governo dell’inesperienza, politica della redistribuzione in deficit, incentivi per rubinetti e monopattini) non fa crescere Renzi. Si assiste piuttosto ad una dislocazione nuova delle forze entro il campo della destra sovranista che non è stata bloccata nella sua espansione con una manovra di blindatura solo parlamentare. Una post-fascista, coerente con il suo credo ideologico, cresce sensibilmente nei gradimenti.
Il tentativo di puntare al colpo grosso
Cosa spinge allora Renzi a rompere gli indugi tra le rampogne di tutti i media che ne denunciano l’impazzimento e lo processano in tempo reale? La certezza che l’arma del Pd di andare al voto sia scarica. E che la percezione della inadeguatezza del governo sia invece un dato che non può essere negato: 80 mila morti per la pandemia, collasso economico, incertezza su tutto. Per questo non si accontenta di punzecchiare i ministri dei banchi a rotelle o dell’alta velocità nella gestione del caso Suarez. Renzi punta al colpo grosso. Prende di mira con un solo proiettile palazzo Chigi, il cui inquilino è denunciato come del tutto inadeguato nella sua donchisciottesca volontà di potenza, il responsabile dell’economia, che non dispone delle strategie credibili per la crescita e non è in grado di scrivere un progetto serio per i fondi europei, e il responsabile degli esteri, che, insieme a Conte e Casalino, intrattiene ambigui rapporti diplomatici con la destra americana e scambi navali-commerciali con il dispotismo egiziano.
Sposando la dottrina giuridica di Sabino Cassese, Renzi denuncia un invasivo accentramento di potere con una alterazione della gerarchia delle fonti normative, una torsione personalistica dell’autorità che dialoga con il popolo a media unificati, una inclinazione al controllo dei servizi di sicurezza per obiettivi inconfessabili, una dissipazione di risorse pubbliche. Insomma Renzi rovescia tutte le accuse che lo hanno inseguito ai tempi del suo massimo potere sulle spalle di Conte, statista dilettante e perciò pericoloso. Dietro la rivalità con Conte c’è di sicuro la competizione tra chi condivide il sostegno degli stessi ambienti e poteri (laici e religiosi) che sono in una sorda lotta intestina che li spinge a puntare su uno solo dei contendenti.
Soprattutto c’è però, nell’affondo di Renzi, la percezione di un deficit del Pd verso la cultura liberaldemocratica e verso l’impresa, due mondi che mai il vecchio Pci aveva così trascurato. Per questo il “nuovo” Renzi parla in nome della competenza, della complessità, del professionismo politico, del galateo istituzionale, della crescita economica, dell’occupazione. La sua ambizione non è quella di apparire come “demolition man” bensì quella di incarnare una sensibilità liberaldemocratica e d’impresa per raccogliere culture, forze economiche contro i costi della decrescita indotta dal populismo.
La politica non si fa in laboratorio
E’ realistica la sua insubordinazione? Il rischio che Renzi corre è quello di aver escogitato un piano di attacco troppo razionale, senza prevedere variabili che sempre complicano i percorsi. Compie lo stesso errore razionalistico-astratto che Gramsci rimproverava alla destra radicale francese che aveva calcolato in laboratorio i tempi e i modi della presa del potere. Le variabili che potrebbero compromettere il corsaro fiorentino si chiamano Bettini o Franceschini, cioè gli ultimi interpreti di una politica post-ideologica, del potere per il potere, non meno indifferenti ai valori di lui e perciò pronti a arruolare i “costruttori” in funzione antirenziana. Il patto del Nazareno a confronto è uno scherzetto.
Altro intoppo è la non comprensione della autentica natura del M5S. E’ vero che avevano ordinato una marcia su Roma contro il “golpetto” di Napolitano, avevano minacciato fuoco e fiamme contro Mattarella. Ma la ossatura del populismo gentile è di essere una ribellione conservatrice e la disponibilità di raccogliere tutto pur di restare al potere conferma questa assoluta indifferenza ideale-programmatica. E’ sottile, per quanto riguarda Renzi, la linea che divide un demolitore patentato da un azzardo audace che costruisce nuovi equilibri parlamentari con un governo a guida più autorevole.
A correre rischi in questa situazione, che vede il ritorno a pratiche molto antiche di piccola politica, è soprattutto il Pd. Se vince Conte (tertium datur!), l’avvocato, per quanto politicamente inadeguato, assume i galloni del Macron nostrano, secondo i sondaggi votato comunque alla sconfitta, un Micron insomma. Se perde e la parlamentarizzazione della crisi porta alla sfiducia, c’è Renzi che incalza e rivendica spazi (che avrebbe comunque anche come leader di una opposizione liberaldemocratica indotto alla ritirata dai “costruttori”). Una guerra di successione si apre per l’immobilismo del Pd, un partito diventato facile terra di conquista. La vittoria o la sconfitta dell’assalto renziano comportano comunque l’obsolescenza del Pd.
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