L’Ungheria ma non solo, i nazionalismi distruggono la stabilità dell’Europa

Pochi se ne sono accorti, almeno in Italia, ma nell’ultima riunione del consiglio dei ministri degli Esteri della NATO il clima di festa per l’ingresso della Finlandia nell’alleanza è stato turbato da un vero e proprio incidente diplomatico. Il ministro ungherese Péter Szijjártó ha vivacemente protestato con il segretario generale Jens Stoltenberg per la presenza, alla riunione, del ministro ucraino Dmytro Kuleba. L’Ucraina non fa parte (ancora) della NATO, ma esponenti del governo di Kiev sono variamente presenti alle riunioni, invitati a partecipare di persona o in collegamento a dispetto delle prescrizioni del Trattato. Secondo il capo della diplomazia ungherese questo comporterebbe una ingiustificabile “violazione dell’unità della NATO”.

La protesta di Szijjártó non ha avuto conseguenze pratiche: ai suoi colleghi dev’essere apparsa come una nuova messa in scena della già più che nota dissidenza ungherese dalla linea comune degli altri governi dei paesi NATO che (tutti, eccetto la Turchia) condividono gli aspetti fondamentali della strategia sulla guerra in Ucraina: le sanzioni contro la Russia e l’invio di armi all’esercito di Kiev. L’Ungheria di Viktor Orbán non applica le sanzioni decretate dall’Unione europea, su sua richiesta e dopo molte insistenze è stato esonerato dall’embargo al petrolio russo, si tiene per sé le sue armi, continua ad avere con Mosca ottime relazioni, cementate dall’amicizia personale tra lo stesso Orbán e Vladimir Putin e, soprattutto, dalla comune ideologia della “democrazia illiberale” con cui dovrebbero essere governati i loro cittadini-sudditi.  Ben più pesanti parrebbero destinate ad essere le conseguenze se nelle prossime settimane venisse confermato l’invito rivolto già informalmente da Stoltenberg a Volodymyr Zelensky a partecipare di persona al prossimo vertice dell’alleanza, in calendario per la metà di luglio a Vilnius. Ma ci sono parecchie settimane per spegnere la miccia e nessuno può pensare davvero che lo schieramento occidentale entrerà in crisi per questo.

La Transcarpazia

Però non è tanto sul merito delle divergenze interne allo schieramento occidentale che va valutata la questione. Quel che c’è sullo sfondo è ben più del disallineamento, peraltro parziale, di un paese dalla linea comune. Sul motivo vero del non placet ungherese nei confronti dell’ammissione dell’Ucraina ai consessi alleati e, in prospettiva, dell’entrata vera e propria di Kiev nella NATO le fonti di Budapest sono esplicite, più o meno quanto lo sono (o lo sono state) quelle turche sul no all’ingresso della Svezia. In questo secondo caso ragione del veto sono i presunti trattamenti di favore riservati da Stoccolma ai “terroristi curdi”. Nel caso dell’Ungheria verso l’Ucraina il pretesto è l’illegittima occupazione, da parte di Kiev, di un territorio che Budapest ritiene terra ungherese: la Transcarpazia.

zelenskySi tratta della piccola regione (meno di 13 mila chilometri quadrati) che si trova a occidente dei monti Carpazi e che, dopo molte e complicate traversie storiche, oggi appartiene all’Ucraina. È un’area poco popolata (un milione e 200 mila abitanti), con due sole città, Užgorod e Mukačevo, un’economia abbastanza depressa e, di questi tempi, una sola fortuna: quella di essere la parte dell’Ucraina meno coinvolta nel conflitto. La maggioranza della popolazione parlerebbe il ruteno o “piccolo-russo” se non ci fosse stata negli ultimi anni un’intensa opera di ucrainizzazione della lingua, ma c’è anche una minoranza che parla ungherese. Di tutte le nazioni che nel corso dei secoli prima dell’Ucraina l’hanno dominata, Polonia, Slovacchia, Russia, e, appunto, Ungheria, soltanto quest’ultima rivendica il suo territorio alla propria sovranità e ha aperto un contenzioso con le autorità di Kiev. Un confronto che, va detto anche questo, si è inasprito quando nella loro politica di omogeneizzazione linguistica rivolta soprattutto ma non solo verso i russofoni, anche in Transcarpazia la capitale lontana ha imposto misure contro le lingue “straniere”. Da allora le accuse di Budapest alla “repressione” della minoranza ungherese da parte di Kiev sono montate di tono fino a far dire a Orbán, all’indomani della sua vittoria elettorale di un anno fa, che Zelensky era uno dei “nemici” che si erano opposti alla sua campagna “al pari di Georges Soros”. Chi sa quanto odio nutra il leader ungherese per Soros può capire il peso di quell’affermazione di ostilità. Si dice che gli americani abbiano faticato non poco a convincere Zelensky a passare sopra all’offesa e a rendere pubblica, tre mesi dopo, una telefonata di “ringraziamento” a Orbán per l’accoglienza riservata ai profughi di guerra ucraini.

Varsavia, la Galizia e la Volinia

Si potrebbe pensare che si tratti di una controversia territoriale limitata e marginale, ma non è così perché l’oblast ucraino di Užgorod è parte di quella Grande Ungheria, il regno unito con l’impero di Vienna sotto la dinastia asburgica prima del 1918, che non è più soltanto argomento di studio nelle scuole magiare, ma una sempre più chiara rivendicazione più politica che storica dell’attuale classe dirigente di Budapest. La manifestazione più clamorosa di questo revanscismo lo stesso Orbán la diede presentandosi avvolto in una sciarpa su cui campeggiava l’immagine della Grande Ungheria a una partita della nazionale di calcio contro la Grecia nel novembre del 2022.

Una smargiassata, ma, al di là del folklore, il neonazionalismo magiaro sta creando tensioni e problemi con tutti i paesi in cui ci sono minoranze lasciate come eredità dall’antico regno: innanzitutto la Transilvania in Romania, dove i rumeni di origine e lingua ungherese sono quasi il 20% della popolazione, ma anche la Slovacchia, la Serbia, la Croazia.

Quello fra Ungheria e Ucraina è solo uno dei tanti conflitti potenziali che le complicate vicende storiche di quella parte d’Europa, con i mescolamenti e gli spostamenti di popolazioni e confini cui la dottrina wilsoniana alla fine della prima guerra mondiale non riuscì in alcun modo a mettere ordine. Dopo la dissoluzione dell’Unione sovietica alcuni di questi conflitti erano venuti alla luce, solo in parte mediati dalla comune appartenenza di alcuni paesi al gruppo di Visegrád, poi sono stati proiettati in seconda linea dalla brutale guerra scatenata dai russi. Ma proprio la guerra, che può finire per modificare lo status quo di tutta l’area, potrebbe riproporli drammaticamente. Nelle prime settimane del conflitto, per fare solo un esempio, fece scalpore e provocò – pare – un inedito provvedimento censorio richiesto dal vertice della NATO un’inchiesta di una rivista di affari diplomatici edita in Belgio in cui si parlava di un piano preparato dal governo di Varsavia nell’evenienza, che allora pareva nell’ordine delle cose possibili, di un collasso dell’Ucraina sotto l’attacco russo. In quel piano si prevedeva che la Polonia si sarebbe riappropriata delle regioni che le sono appartenute per secoli, la Volinia, teatro negli anni ’40 di orribili carneficine di polacchi ordinate dal leader nazionalista alleato con i nazisti Stepan Bandera oggi nel pantheon degli eroi della patria, e la Galizia orientale, con la sua capitale Leopoli che molti al di qua del confine continuano a considerare una città fondamentalmente polacca. Il potenziale conflitto tra Varsavia e Kiev è presto però scivolato dietro le quinte visto che la Polonia è presto diventata la punta di diamante dello schierameno che dentro la NATO è più duro verso Mosca. Proprio in queste ore Zelensky è a Varsavia anche per ringraziare i dirigenti polacchi che gli hanno concesso l’uso dei loro Mig.

L’Ungheria, la Polonia. Ma poi anche la Slovacchia, in cui c’è un movimento che vorrebbe espellere la minoranza ungherese e rivendicare a Bratislava, in concorrenza con Budapest, qualche diritto sulla Transcarpazia. E poi la Romania, che ha aperto con l’Ucraina un duro contenzioso sulla sovranità di una vasta area marina ricca a quanto pare di giacimenti petroliferi intorno all’Isola dei Serpenti resa famosa dalle vicende della guerra, mentre Bucarest polemizzava con Kiev perché nei documenti ufficiali ucraini si parlava della “lingua moldava” (il problema è stato superato pochi giorni fa, con il riconoscimento costituzionale del rumeno da parte di Chișinău).

La Moscovia invece della Russia?

Il piano del governo di Varsavia è rimasto nel cassetto e forse non è mai esistito. Ma almeno nove secoli di storia sono a testimoniare il continuo spostamento di poteri e di popolazioni, le rivolte, le guerre che hanno cambiato continuamente gli equilibri in quell’area fino al (provvisorio) congelamento dell’unificazione nel segno di Stalin e dei suoi successori e alla rinascita delle pulsioni nazionalistiche dopo il crollo dell’impero sovietico. Le recenti esternazioni di personaggi pubblici, anche governativi, in Ucraina e in Polonia sulla possibilità di chiamare Moscovia la federazione russa (o quel che ne resterebbe) sono anch’esse il segnale dell’estrema instabilità esistente da sempre ma che la guerra ha aggravato drammaticamente innescando una spirale che sta riempiendo tutta l’area di armi micidiali. Quel riferimento lascia pensare che ci sia chi, nello schieramento che si oppone alla guerra di Putin, pensi che la vittoria contro il dittatore del Cremlino consista nella dissoluzione della Federazione russa. Fa veramente paura il solo pensiero di quali effetti produrrebbe l’aprirsi di un simile vuoto di potere.