L’ultimo colpo
agli operai di Melfi
in lotta da 25 anni

Sul convegno organizzato nei giorni scorsi a Melfi, in Basilicata, per i venticinque anni dello stabilimento della Fiat e delle fabbriche dell’indotto che lo circondano è arrivata inaspettata la notizia del fallimento della trattativa tra Fca e Renault. La mattina del 6 non è ancora del tutto chiaro che cosa sia accaduto e il ruolo avuto dal governo francese, almeno secondo la versione datane da Elkan. Ma restano confermate le riserve e le perplessità della Fiom rispetto a una proposta di cui non è chiaro il piano industriale e in cui resta irrisolta l’asimmetria del ruolo dello Stato italiano rispetto a quello francese che detiene il 15% del capitale del colosso dell’auto d’oltralpe. In effetti molte le preoccupazioni da parte, soprattutto, dei delegati di fabbrica, rispetto alla proposta di fusione avanzata da Fca. Il timore è che si tratti soltanto di un’operazione finanziaria che comporta solo rischi per l’occupazione. E come sottolinea Gianni Rinaldini, segretario della Fiom nel 2004 anno della mitica “primavera di Melfi”, i precedenti per avere siffatti sospetti vi sono tutti, a partire dalle dismissioni di diverse aziende da parte di Fca (si pensi al caso di Magneti Marelli) i cui proventi invece che andare a nuovi investimenti si sono trasformati in dividendi per gli azionisti.

 

La sfida dell’innovazione

fabbrica ex Fiat a MelfiD’altra parte è pur vero che, come sottolinea Michele De Palma, responsabile del settore auto della Fiom, il sindacato rispetto a programmi di ulteriore integrazione su scala internazionale dell’industria dell’auto italiana non può mettersi sulla difensiva. È difatti evidente che, per affrontare le sfide dell’innovazione tecnologica e della rivoluzione energetica, sono necessari ulteriori livelli di concentrazione, pena la marginalità e il deperimento di questo settore che per tanti aspetti resta la spina dorsale del nostro apparato industriale.

Del resto, proprio la fusione mancata tra Fca e Renault – frutto anche della miopia nazionalista di Macron e della latitanza del governo italiano – e le stesse difficoltà insorte nel rapporto tra Renault e Nissan dimostrano quanto ormai sia insufficiente un processo di integrazione europea fondato solo sul rispetto dei vincoli di bilancio da parte degli Stati membri dell’Unione, come vi sia necessità di politiche industriali comuni, di un ruolo del pubblico che superi i confini nazionali, e soprattutto di un’armonizzazione delle politiche fiscali che metta fine al fenomeno dei “paradisi fiscali”nel cuore dell’Europa, come accade in Olanda e Lussemburgo.

È evidente che, dopo la fallita fusione tra Fca e Renault, anche per lo stabilimento di Melfi si torna a navigare a vista. Esso resta, tuttavia, centrale nel sistema dell’industria dell’auto italiana. Più di qualsiasi altro stabilimento italiano quello di Melfi è proiettato per i modelli che si costruiscono verso il mercato americano, essendo quindi uno dei capisaldi dell’asse strategico costruito da Marchionne tra Fiat e Chrysler.

 

Il modello della fabbrica integrata

Lo stabilimento di Melfi, comunque, sin dalla sua apertura, venticinque anni fa, è stato l’avamposto dei processi innovativi che hanno investito il settore dell’auto in Italia. Fu il primo tentativo organico di superamento del modello di produzione fordista e di costruzione della “fabbrica integrata”. Ma anche il luogo in cui la nuova organizzazione del lavoro è immediatamente piegata allo sfruttamento intensivo della forza lavoro, attraverso l’intensificazione dei ritmi a la riduzione delle pause, come già aveva visto Vittorio Rieser venticinque anni fa con la prima inchiesta operaia a Melfi, promossa dalla rivista Finesecolo. E come, a venticinque anni di distanza, conferma l’indagine condotta da Davide Bubbico per conto della Fiom e della Fondazione Claudio Sabattini e presentata nel corso del convegno del 6 giugno

Ma lo stabilimento di Melfi è stato nel corso della ormai sua lunga esistenza anche il posto in cui la Fiom si è presa le sue rivincite, nella lotta vittoriosa dei “21 giorni” il 2004 vissuta come la risposta operaia alla sconfitta del 1980 a Torino, e ricostruita nel convegno dall’intervento di Gianni Rinaldini, e in quella altrettanto vittoriosa contro i licenziamenti per rappresaglia di Barozzino, Lamorte e Pignatelli di alcuni anni dopo.

corteo metalmeccaniciE tuttavia, oggi, è difficile sfuggire a una sensazione di sostanziale isolamento della classe operaia di Melfi dal contesto regionale in cui è collocata. Sui rapporti tra la regione e lo stabilimento di Melfi, e le fabbriche dell’indotto, si concentrano gli interventi di Gaetano Ricotta, segretario regionale della Fiom, di Angelo Summa, segretario regionale della Confederazione, di Giorgia Calamita, una delle protagoniste della lotta del 2004 e oggi dirigente regionale della Fiom. Nel corso di questi venticinque anni non è che non ci siano stati rapporti tra sinistra politica e fabbrica. Nel corso dei “21 giorni” estesa e ampia fu la mobilitazione popolare e delle amministrazioni locali della zona a sostegno della lotta operaia. Intenso poi il lavoro di fabbrica di Rifondazione comunista, soprattutto per iniziativa di Angela Lombardi, e della componente di sinistra dei Ds. Forte anche il sostegno di Sinistra ecologia e libertà della zona alla lotta successiva contro i licenziamenti per rappresaglia, sino alla candidatura e l’elezione di Barozzino al Senato nella passata legislatura.

Ma tutto ciò non è riuscito a modificare l’irrilevanza dell’industria dell’auto nel definire assetti e equilibri nelle scelte di politica economica regionale (come del resto è avvenuto con le estrazioni petrolifere che costituiscono ormai solo una pesante ipoteca dal punto di vista dell’impatto ambientale) e nel ruolo che le forze sociali organizzate hanno nel contribuire a definire nuovi equilibri e sinergie innovative capaci di cambiare il modello di sviluppo su scala regionale.

Il 14 sciopero dei metalmeccanici

Tocca a Francesca Re David, segretaria generale della Fiom, nelle conclusioni cercare di superare le diffidenze dei delegati verso i nuovi rapporti unitari con Fim e Uilm in vista dello sciopero generale dei metalmeccanici del 14 giugno. Troppe le ferite ancora aperte, a cominciare dall’ultimo accordo separato sul contratto aziendale, e le lacerazioni accumulate nella vita di ogni giorno in fabbrica. Ma, giustamente, Re David sottolinea che questa prospettiva per la Fiom non significava affatto arretrare dalle proprie posizioni ma è una sfida alle altre organizzazioni, nel mutato contesto politico e sociale, ad aprire anche in Fca una nuova fase. “In questi venticinque anni l’azienda – ha detto Re David – ha provato a distruggerci. Noi abbiamo lottato. Non abbiamo vinto, ma siamo in vita. La sfida unitaria può essere una svolta per i nuovi rapporti di forza che dobbiamo costruire anche per affrontare le incertezze di fronte a cui si trova il settore dell’auto nel nostro Paese”.

 

Non c’è che dire: finché c’è la Fiom, c’è speranza.