Loris Campetti: una storia finita bene
negli anni della notte della Repubblica
Tra il 1960 e il 1965, 62 prefetti di prima classe su 64 provenivano dall’amministrazione fascista. Quelli di seconda classe erano 64 su 64, i questori 120 su 135, i vicequestori 139 su 139. Su 1642 commissari o vicecommissari soltanto 34 avevano avuto vaghi contatti con la lotta di Liberazione. Sono cifre che testimoniano sia la “continuità dello Stato” studiata e spiegata da Claudio Pavone e, più recentemente, tra gli altri, da Davide Conti (di cui è importante ricordare i due volumi: Gli uomini di Mussolini. Prefetti, questori e criminali di guerra dal fascismo alla Repubblica italiana e L’Italia di Piazza Fontana. Alle origini della crisi repubblicana, entrambi editi da Einaudi nel 2017 e nel 2020), sia la “strategia della tensione”, la quale nelle sue diverse articolazioni fu utilizzata dai suoi ideatori per rivolgere un attacco politico contro il movimento degli studenti e le imponenti lotte operaie dell’autunno del 1969.
Indagini a senso unico
Poche ore dopo l’attentato di Piazza Fontana, il Ministero degli Interni indirizzò, con un ordine preciso, le indagini unicamente verso sinistra e da quel momento alimentò una potente campagna di stampa per accreditare questa tesi. I gruppi dell’estrema sinistra, aiutati da un ristretto numero di intellettuali, furono lasciati soli nel compito di opporsi a questa campagna; la quale, certo, fallì perché si rivelò grossolana, non senza però avere determinato in una parte del movimento la convinzione che alla violenza dello “Stato” occorresse contrapporre una violenza difensiva. Certo, il terrorismo era ancora lontano, ma in questa vicenda si ritrovano molte delle cause della sua futura potenza in Italia.
Questo è il contesto storico in cui si svolge la vicenda raccontata da Loris Campetti – una delle firme storiche de “Il Manifesto” – in L’arsenale di Svolte di Fiungo pubblicato dall’editore Manni. La storia è questa. Nel 1972, poco dopo essersi laureato in Chimica, Campetti venne accusato di avere costituito un vero e proprio arsenale che i carabinieri avevano rinvenuto a pochi chilometri dall’Università di Camerino. La sua famiglia Campetti era nota per essere di sinistra: il funerale del padre di Loris padre era stato il primo a Macerata a non svolgersi in Chiesa e il giovane Campetti era stato appena escluso dal partito comunista perché si era avvicinato al gruppo del Manifesto. L’accusa contro Loris non fu seguita da un ordine di arresto e lui decise allora di allontanarsi da casa, spostandosi in automobile tra la Puglia e Roma,. Alla fine però decise di presentarsi spontaneamente al comando dei carabinieri della sua città per rivendicare la propria innocenza. Qui il caso fu affidato al comandante Ovidio, un funzionario che incarnava appunto la “continuità dello Stato” essendo figlio di un magistrato fascista e fratello di un noto militante di estrema destra.
L’incontro con gli operai della Fiat
In attesa del processo Campetti approdò a Torino, dove avvenne l’incontro con gli operai della Fiat : con molti di essi nacque un rapporto non solo politico ma anche di amicizia. Su questo suo poeriodo torinese Campetti qualche anno fa ha pubblicato un libro prezioso in cui ha ricostruito la storia di Gianni Usai, delegato sindacale di origine sarda e militante anch’egli nel Pdup, che prima della vertenza dei 35 giorni del 1980, aveva deciso di tornare a vivere nella sua isola dedicandosi alle pesca. Negli anni successivi avrebbe dato vita a una interessante esperienza di cooperazione tra pescatori, segno di una passione e di un’intelligenza politica mai sopita ( Gianni Usai con Loris Campetti, Operai in mare aperto. Conversazioni su lotta, uguaglianza, libertà, Edizioni Gruppo Abele, 2014).
Se mi posso permettere una nota personale, Campetti mi dedicò il libro sulla sua vicenda con queste parole: “una storia di sinistra finita bene!”. Anche la sua storia degli anni Settanta era finita bene, ma dopo tante altre incredibili vicende che l’autore racconta con uno stile piacevole. Il libro contiene pagine molto divertenti su alcune disavventure personali che s’intrecciano con la grande storia in cui l’autore era stato coinvolto.
La svolta che alla fine lo aveva salvato da un futuro giudiziario oscuro era avvenuta a metà degli anni Settanta, quando due terroristi di estrema destra, Stefano delle Chiaie e Marco Pozzan, avevano svelato ai giudici e alla stampa nazionale che a costituire l’arsenale erano stati loro, proprio con l’obiettivo di far cadere la colpa sui gruppi della sinistra.
Una storia, dunque, che permette ai lettori più giovani non solo di comprendere meglio i rischi che la democrazia italiana corse negli anni Settanta, ma anche su quali risorse collettive poté contare per reggere quella prova così difficile, a cominciare dalla forza e dalla maturità movimento dei lavoratori di cui Loris Campetti nel corso degli anni successivi divenne uno degli osservatori e cronisti più attenti e intelligenti.
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