Lo streaming della Apple
e il diritto di ascoltare ovunque
Ho letto sulla Stampa qualche giorno fa: “… fu proprio Steve Jobs a lanciare la prima – per molto tempo unica – alternativa alla pirateria musicale. Il 28 aprile 2003 nasceva infatti iTunes Store, il negozio di canzoni digitali che segnò il passaggio dall’era di Napster a quella della musica da scaricare legalmente da Internet. Quindici anni dopo, Apple sembra prossima a dismettere il modello del download e dedicarsi esclusivamente allo streaming.” Sarà vero? Sono sicuramente voci di corridoio (rumors, se preferite) che circolano negli ambienti industriali. Il che ci mostra anche la grossolanità e la scivolosità politica del dibattito recente sulle notizie false (fake news, se preferite). Una voce come quella riferita dal quotidiano torinese è “falsa”, se non è corroborata da un comunicato stampa? Non è comunque nel potere di una grande azienda come la Apple di prendere una decisione così importante per la diffusione della musica nel mondo? E la si può commentare e criticare prima che sia effettivamente presa?
Riassumo gli aspetti tecnico-commerciali, per chi non li conoscesse. Sul negozio online di iTunes, collegandosi attraverso un’applicazione che permette anche di conservare e riprodurre le registrazioni, si possono acquistare file audio, o “canzoni”, per una cifra individuale intorno a un euro; gli album costano un po’ meno della somma del costo delle singole tracce. Chi scarica un file ha poi diritto di riprodurlo con iTunes, utilizzando fino a cinque dispositivi diversi (Mac, PC, iPod). Il programma permette anche di scaricare e archiviare altri file audio, ad esempio quelli dei propri cd, o provenienti da altri supporti.
Il successo di iTunes – e prima di iTunes del downloading – sta nel fatto che chi archivia sul proprio dispositivo i file audio ha una percezione di possesso, sia pure immateriale: è come avere una collezione di dischi, secondo una modalità vecchia di più di un secolo, che è stata anche commentata (prima dell’era del cd) dall’economista-filosofo Jacques Attali (in Rumori), con l’osservazione che generalmente il collezionista possiede molti più dischi di quanti ne potrà mai ascoltare. Va detto, poi, che secondo le leggi sul diritto d’autore e sul copyright chi acquista un disco di fatto possiede solo il diritto di ascoltare una certa registrazione, in privato, e questo è tanto più vero se la registrazione consiste in una sequenza di bit fissata da qualche parte. Ma, dal punto di vista di chi ha acquisito quel diritto, avere una collezione di file audio equivale funzionalmente ad avere una collezione di dischi, con il vantaggio che quel materiale può essere portato in giro facilmente, può essere ricercato e scelto con la rapidità di procedure tecniche facili, può essere ascoltato dovunque. Come una cassetta col Walkman, come un cd con un lettore portatile, ma con il vantaggio di avere a disposizione decine o centinaia di migliaia di registrazioni.
Ma cosa succede, allora, se Apple dismette il modello del download e si dedica esclusivamente allo streaming? Succede che, a meno di un improvviso rifiorire della “pirateria”, o della nascita di pratiche nuove, gli ascoltatori di musica interessati alla portatilità e all’ubiquità (forse!) dell’ascolto saranno costretti a passare a sistemi di streaming come Apple Music e Spotify, che permettono sia la scelta sia l’ascolto eterodiretto (a partire dalle scalette – se volete playlists – dei fornitori) utilizzando dispositivi collegati a Internet, principalmente i telefoni cellulari, con una funzionalità simile a quella della radio, ma interattiva: si può chiedere e ottenere istantaneamente l’ascolto di un brano, si può saltare l’ascolto di un brano indesiderato. I sistemi di streaming a pagamento consentono anche di scaricare le registrazioni sul proprio dispositivo, ma il formato delle registrazioni scaricate è protetto (in modi diversi con i diversi sistemi), e l’autorizzazione ad ascoltarle dura soltanto se dura l’abbonamento.
Poco male, qualcuno dirà: con 120 euro all’anno uno si può collegare, ascoltare la musica che vuole, scaricare quella che vorrebbe conservare (anche se Spotify impone un limite di 3333 file: c’è chi sul proprio laptop ne ha decine o centinaia di migliaia). Come riferisce l’autore dell’articolo sulla Stampa, Apple si basa “sull’idea che in un mondo sempre connesso non abbia più senso collezionare file Mp3 come si faceva con dischi e compact disc”.
Ma, a parte che 120 euro all’anno proprio pochi non sono, davvero viviamo in un mondo “sempre connesso”? A me non sembra. Sto finendo di scrivere questo articolo su un treno, dove non c’è wifi (e se anche ci fosse sarebbe quella che i viaggiatori dell’alta velocità conoscono bene), e dove il telefonino sì, “prende”, ma ogni tanto si sgancia e poi riaggancia a un altro ripetitore, il che non dà molto fastidio se devo ricevere dei messaggi di Whatsapp, ma è fastidiosissimo se sto ricevendo uno streaming. Per non dire delle gallerie. Quando sarò arrivato a destinazione, farò lezione al Conservatorio, usando esempi musicali tratti dalla mia collezione (per uso didattico mi è consentito di andare oltre l’uso strettamente personale). Ma la wifi del Conservatorio a volte si guasta (è già una grande innovazione che ci sia!), e per combinazione le mura spesse e la collocazione urbana fanno sì che la copertura cellulare sia insufficiente. Allora cosa faccio, rinuncio alla lezione? La casetta di campagna di famiglia dove a volte passo i fine settimana è in una zona dove non c’è copertura cellulare, e dove le centrali telefoniche non offrono l’Adsl. Lì ho tanti bei 78 giri, “vinili” e cassette, ma se volessi ascoltare musica registrata negli ultimi vent’anni?
Uno dei momenti più intensi e illuminanti di ascolto musicale li ho vissuti anni fa su una nave, ascoltando dal mio iPod. Chi vuole, può leggere un resoconto di quell’esperienza (digitate su Google: Franco Fabbri Shadows). Molte compagnie marittime offrono servizi wifi a pagamento, di solito carissimi e inefficienti, e le navi in alto mare non sono coperte dalle reti cellulari (a meno che non navighino troppo vicino alla costa: vero comandante?). Con lo streaming quell’esperienza non ci sarebbe mai stata, a meno di non pianificarla, scaricando quei file (ma non più di 3333!). E, allo stesso modo, lo streaming, o meglio le regole degli operatori di streaming, non permetterebbero di ascoltare sulle spiagge di isole lontane (o vicinissime), facendo camminate in montagna, per non dire di tutte le immense zone del mondo che non sono ancora “sempre connesse”, e chissà quando mai lo saranno. Strano che quasi cent’anni di storia della radio non abbiano insegnato a questi brillantissimi tecnologi che a volte, semplicemente, il segnale non arriva.
A volte le decisioni avventate di grandi gruppi industriali portano a delle catastrofi commerciali, a loro stesso danno. Spesso, comunque, implicano la riduzione dei diritti dei consumatori, tanto più gravi quanto più sono prese da monopoli e oligopoli. Ma qui, a maggior ragione, stiamo parlando del diritto alla bellezza, all’emozione. Davvero vogliamo lasciare che decidano soltanto loro?
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