Lo giuro, il mare era azzurro farfalla
Viaggiammo leggeri perché avevamo preso soltanto le cose che ci sembravano essenziali per vivere. Quando aprimmo il bagaglio per l’ispezione doganale, il contenuto delle nostre valigie denotava in modo abbastanza sintomatico il carattere e gli interessi di ciascuno.
Infatti il bagaglio di Margo conteneva un’infinità di indumenti diafani, tre libri di diete dimagranti e uno sterminio di bottigliette piene di vari elisir garantiti per curare l’acne. La cassetta di Leslie custodiva due pullover a collo alto e un paio di calzoni in cui erano avvoltolati due rivoltelle, una pistola ad aria compressa, un libro intitolato L’armaiolo in casa e una grossa bottiglia d’olio che perdeva. Larry era accompagnato da due bauli di libri e una ventiquattrore coi suoi vestiti. Il bagaglio di mamma era giudiziosamente spartito tra effetti personali e vari libri di cucina e di giardinaggio. Io mi portai dietro soltanto quelle cose che ritenevo necessarie per alleviare la noia di un lungo viaggio: quattro libri di storia naturale, un acchiappafarfalle, un cane e un barattolo per marmellata pieno di bruchi tutti in pericolo imminente di trasformarsi in crisalidi. Così, perfettamente equipaggiati secondo i nostri punti di vista lasciammo le umide rive dell’Inghilterra.
La Francia malinconica e lavata dalla pioggia, la Svizzera che sembrava un dolce natalizio, l’Italia esuberante, chiassosa e puzzolente rimasero alle nostre spalle, lasciando in noi soltanto ricordi confusi. La minuscola nave si allontanò fremente dal tacco dell’Italia inoltrandosi nel mare crepuscolare, e mentre dormivamo nelle nostre cabine soffocanti, chissà dove in quel tratto d’acqua brillantato di luna superammo l’invisibile linea divisoria ed entrammo nel vivido, caleidoscopico mondo della Grecia. A poco a poco questa sensazione di un cambiamento filtrò fino a noi e così, all’alba, ci svegliammo pieni d’impazienza e salimmo sul ponte.
Il mare gonfiava i suoi azzurri e levigati muscoli ondosi mentre fremeva nella luce dell’alba, e la schiuma della nostra scia si allargava delicatamente dietro di noi come la coda di un pavone bianco, tutta scintillante di bollicine. Il cielo era pallido, con qualche pennellata gialla a oriente. Davanti a noi si allargava uno sgorbio di terra color cioccolata, una massa confusa nella nebbia, con una gala di spuma alla base. Era Corfù, e noi aguzzammo gli occhi per distinguere la forma delle sue montagne, per scoprirne le valli, le cime, i burroni e le spiagge, ma non ne vedevamo che i contorni. Poi, tutt’a un tratto, il sole spuntò sull’orizzonte e il cielo prese il colore azzurro smalto dell’occhio della ghiandaia.
Le infinite e meticolose curve del mare si incendiarono per un istante, poi si fecero d’un intenso color porpora screziato di verde. La nebbia si alzò in rapidi e flessibili nastri, ed ecco l’isola davanti a noi, le montagne come se dormissero sotto una gualcita coperta scura, macchiata in ogni sua piega dal verde degli ulivi. Lungo la riva le spiagge si arcuavano candide come zanne tra precipiti città di vivide rocce dorate, rosse e bianche. Doppiammo il promontorio settentrionale, un liscio contrafforte di roccia color ruggine bucato da una serie di grotte gigantesche. Le onde cupe sollevavano la nostra scia e la portavano delicatamente verso quelle fauci, dove essa si frantumava sibilando avida tra le rocce. Doppiato il promontorio, le montagne scomparvero e l’isola si trasformò in un declivio dolce, macchiato dall’argentea e verde iridescenza degli ulivi, interrotta qua e là dal dito ammonitore di un nero cipresso stagliato contro il cielo.
Il mare poco profondo nelle baie era azzurro farfalla, e nonostante il rombo dei motori potevamo distinguere l’eco soffocata – che ci giungeva dalla riva come un coro di voci sottili – degli stridi acuti e trionfanti delle cicale.
(Gerald Durrell, “La mia famiglia e altri animali”, 1956)
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