L’Europa deve riprendere
i salvataggi
nel Mediterraneo
Si profila un nuovo caso Diciotti. Matteo Salvini ho ordinato la chiusura del porto di Lampedusa alla nave della Guardia Costiera ”Gregoretti” che ha raccolto 135 scampati al terribile naufragio avvenuto giovedì al largo delle coste libiche. Come nell’agosto dell’anno scorso, il divieto non riguarda una nave delle ONG, cui il governo italiano ha dichiarato guerra, ma un mezzo militare italiano. Si tratta di una maniacale coazione a ripetere di un ministro che si ritiene al di sopra del diritto e che solo il voto amico dei suoi pavidi alleati di governo ha salvato da un processo per sequestro di persona. E si tratta di un atteggiamento molto pericoloso, non solo per le responsabilità dirette che il governo di Roma si assume boicottando il salvataggio di vite umane, ma anche per gli interessi nazionali dell’Italia che rischia di aggravare l’isolamento nel quale già si trova in Europa.
Missione internazionale
Isolamento che apparirebbe in tutta la sua gravità se la prossima Commissione europea dovesse chiedere, come molti osservatori ritengono probabile di fronte al ripetersi di tragedie gravissime, ai governi dell’Unione di riprendere una missione internazionale comune per salvare i naufraghi nel Mediterraneo e questa iniziativa dovesse essere proposta e poi sostenuta dal Parlamento europeo. Non sarebbe l’unica, ma certo la principale e la più urgente misura per evitare che la strage dei migranti in mare continui e si aggravi con il proseguire dell’estate e della guerra civile in Libia.
Questa è la lezione, orribile, dell’ultimo naufragio avvenuto nelle ore scorse al largo della costa libica: almeno 140 vittime, quasi tutte, secondo le testimonianze delle stesse autorità libiche, donne e bambini. Dopo il boicottaggio da parte del governo italiano della missione Sofia e la guerra senza quartiere condotta contro le ONG nel mare che va dalle coste meridionali della Sicilia e della Sardegna alle coste africane ci sono soltanto tre tipi di presenze: le imbarcazioni di quelli che fuggono dalla Libia, sempre più precarie e insicure come ci mostrano le immagini che riescono ad arrivare fino a noi (una parte infima di quello che succede), le motovedette libiche che intervengono soltanto se possono “fare prigionieri” quelli che, a discrezione loro, salveranno dalle onde, e i pescherecci dei paesi rivieraschi. Questi ultimi, a quanto pare, sono gli unici che si attengono alle leggi del mare prendendo a bordo chi sta per affogare. Ma lo fanno a proprio rischio e pericolo: rinunciando alla pesca (cioè all’unica fonte di reddito per interi paesi costieri) e affrontando la prospettiva di subire lunghi arresti nei porti e di essere indagati per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina.
Una lezione di diritto internazionale
Succede questo in quella che fu la patria del diritto e – nella retorica d’altri tempi – un faro di civiltà nel Mediterraneo: salvare vite umane può portare alla rovina e magari anche in carcere. Abbiamo visto in televisione il capitano del peschereccio Accursio Giarratano tenerci un’involontaria lezione di diritto, spiegando come e perché il suo equipaggio aveva tratto dal mare cinquanta poveri cristi che stavano per affogare pur sapendo in che guai andava a cacciarsi. Le sue parole sagge e dignitose sono state una piccola consolazione nel diluvio di sconcezze, violenze e insopportabili ipocrisie che esondano nelle tv e nei social media ogni ora del giorno e della notte dai palazzi del governo.
Torniamo alla politica. La ripresa di un’iniziativa comune europea di pattugliamento e di salvataggio nel Mediterraneo è l’unica alternativa esistente, alle condizioni di oggi, se i governi europei vogliono evitare di essere responsabili di una strage che non avrebbe precedenti nella storia del continente dalla fine della seconda guerra mondiale. La riunione che c’è stata nei giorni scorsi a Parigi tra quattordici ministri dell’Interno ne ha posto in qualche modo una timidissima premessa. Il ministro italiano Salvini, ovviamente, non c’era perché lui “non prende ordini da Macron” (preferisce Putin?).
Obiettivo sbagliato
È straordinario, e straordinariamente preoccupante, come un uomo che ha tanto potere e cui tutti attribuiscono in politica grandi capacità manovriere non si renda conto dei rischi cui espone l’Italia tagliandola fuori da ogni dialogo sulla materia immigrazione. Insultare l’Europa e attribuire a “quelli di Bruxelles” i fallimenti che penalizzano l’Italia (ma quanto poi? Nonostante gli strepiti e la propaganda l’Italia resta ben dietro ai partner in fatto di numeri di rifugiati accolti) è un’operazione di cortissimo respiro. Non sono le istituzioni europee, la Commissione e il parlamento, che falliscono nella gestione del problema. Sono i governi nazionali, primi fra tutti gli alleati sovranisti dei sovranisti Salvini, Meloni e compagnia cantante, seguiti con diversi gradi di responsabilità da tutti gli altri. E c’è qualche timida ragione per sperare che la Commissione alla cui formazione sta lavorando la presidente Ursula von der Leyen e il parlamento in cui i sovranisti duri e puri sono una minoranza abbastanza isolata possano rivendicare a sé i poteri che in fatto di immigrazione gli stati nazionali si sono tenuti ben stretti, lavorare per ripristinare il diritto internazionale che obbliga i salvataggi in mare e il trasporto dei naufraghi nei “porti sicuri più vicini” e nello stesso tempo superare il regolamento di Dublino stabilendo criteri obbligatori di distribuzione dei rifugiati tra i vari paesi. Quello che il governo italiano, alleandosi con i paesi di Visegrád, impedì che avvenisse in un decisivo Consiglio europeo lo scorso anno. I “porti sicuri più vicini” per le persone che vengono salvate tra la Libia e la Sicilia sono in Italia e a Malta. È un fatto di cui persino Salvini dovrà prima o poi prendere atto. A meno che il suo delirio di onnipotenza non lo convinca che riuscirà a spostare l’Italia dove ora c’è la Svizzera. Mentre Di Maio lo sta a guardare.
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