L’Europa dei nazionalismi dietro l’amicizia tra Meloni e Zelensky

Se si vuole tracciare un bilancio della visita di Volodymyr Zelensky a Roma, si deve cominciare da una delusione. Il momento più atteso era l’incontro con il Papa, cui da giorni e settimane veniva accreditata l’intenzione di porsi come mediatore in vista se non della pace almeno di una tregua d’armi tra l’Ucraina e la Russia. Il leader di Kiev ha chiuso questa prospettiva con una certa brutalità, ribadendo che non possono esserci negoziati finché Vladimir Putin non ritira le sue truppe.

Una posizione nota e ripetuta in tutti i modi e tutte le circostanze, per cui nessuno si aspettava certo che venisse smentita a Roma. Ma il linguaggio della diplomazia ha molte sfumature e anche l’uso possibile del silenzio. Invece la riaffermazione del principio con un tono ultimativo subito prima dell’incontro in Vaticano ha avuto il sapore di un secco non possumus ad ogni tentativo della Santa Sede di allargare possibili spazi di dialogo sull’obiettivo massimo, quello di far tacere, magari solo temporaneamente, le armi.

Il presidente ucraino Volodymyr Zelensky e il presidente del consiglio italiano Giorgia Meloni
Volodymyr Zelensky e  Giorgia Meloni

Resta in piedi la prospettiva di qualche passo avanti su aspetti marginali, pur se importantissimi sotto il profilo della tutela dei più delicati diritti umani, come la prosecuzione delle esportazioni di cereali, lo scambio di prigionieri e, soprattutto, il ritorno a casa dei bambini che le forze d’occupazione avrebbero strappato alle famiglie ucraine e trasferito in Russia: ventimila, secondo le fonti delle Nazioni Unite, duecentomila e più secondo le autorità di Kiev.

“Appoggio pieno e totale”

Anche l’aspetto “italiano” della visita di Zelensky a Roma non ha dato spazio ad alcuna ragione di ottimismo. Che cosa si sono detti lui e Giorgia Meloni nel loro lungo têtetête a palazzo Chigi?  Il colloquio – hanno tenuto a precisare le fonti governative con un pizzico di autocompiacimento – si è svolto in inglese senza interpreti per cui non c’è da aspettarsi nei prossimi giorni indiscrezioni o rumors. Dobbiamo stare, perciò, al simulacro di conferenza stampa con due domande, una ucraina e una italiana evidentemente concordate prima, che la presidente del Consiglio e il leader di Kiev hanno graziosamente concesso al termine dell’incontro.

Dalle loro parole risulta che a parte la scontata retorica dell’appoggio pieno e totale dell’Italia alle posizioni di Zelensky sulla guerra e del rapporto tra i due che da amicizia tra paesi è diventata amicizia tra le persone, i temi trattati sarebbero stati sostanzialmente due: l’appoggio pieno del governo italiano all’accelerazione – già in atto a prescindere dall’iniziativa di Roma – dell’entrata dell’Ucraina nell’Unione europea e tempi e modi dell’avvicinamento di Kiev alla NATO, che dovrebbe fare un sostanzioso passo avanti nel prossimo vertice dell’Alleanza che si terrà a Vilnius in luglio.

Consideriamo i due aspetti uno alla volta. In merito all’entrata nella UE, l’Italia – ha spiegato Meloni – aiuterebbe l’Ucraina a superare, anche ma non solo con la ricostruzione materiale, le mancanze sui parametri economici, istituzionali e soprattutto in fatto di stato di diritto che attualmente impediscono al paese di corrispondere ai criteri di ammissione fissati dai Trattati. L’impressione è che non sia stata finora valutata, in Italia ma anche a Bruxelles, l’immensità del compito.

La volontà politica di “premiare” il paese che “difende i valori europei” opponendosi alla prepotenza imperiale russa ha fatto passare in secondo piano la sua arretratezza economica e le sue debolezze democratiche. Da anni l’Ucraina è nei primi posti delle classifiche internazionali sulla corruzione e non è stata finora certo un modello di tutela delle minoranze a cominciare da quella russa ma mettendo nel conto anche quella polacca in Galizia e Volinia e quella ungherese nella Transcaucasia.

La concezione del processo d’integrazione

Tutto si può superare, certo. Ma il problema è più profondo delle insufficienze sui parametri. È in gioco la concezione stessa che gli ucraini, come altri cittadini dei paesi dell’ex impero sovietico, hanno della natura stessa e dei compiti storici dell’Unione europea. Nei paesi dell’Est Europa l’ingresso nella Unione è stato percepito più che come l’adesione a un progetto di integrazione sovranazionale, come il raggiungimento di uno status indipendente e democratico da difendere contro le insidie del Grande Vicino russo.

Più che un superamento del nazionalismo, che in quell’area d’Europa ha prodotto conflitti e disastri, l’adesione all’Europa è stata considerata il compimento del riscatto nazionale dall’oppressione sovietica e russa. Sentimento più che comprensibile considerati i precedenti storici, ma decisamente non in linea con lo spirito originario nel quale nacque, a suo tempo, il progetto dell’integrazione europea.

Ursula von der Leyen
Ursula von der Leyen

Non è solo una questione di ideali e prospettive di grande respiro: il sostrato nazionalistico della posizione europea in alcuni paesi dell’est porta a conseguenze pratiche potenzialmente devastanti per il funzionamento dell’Unione. Per esempio la pretesa che il diritto nazionale sia prevalente su quello comunitario, posizione sostenuta dai governi dei paesi di Visegrád ma anche dal partito di Giorgia Meloni che distruggerebbe le fondamenta giuridiche dello stesso mercato unico europeo.

In questo contesto, ci sono molte ragioni per ritenere fuor di luogo i ripetuti riconoscimenti di un presunto buon diritto dell’Ucraina a bruciare le tappe dell’adesione  e gli attestati di “buon europeismo” ante litteram – per meriti di guerra, diciamo così – che i responsabili politici europei tanto a Bruxelles che nelle capitali dell’Unione continuano ad assicurare al leader del paese in cerca di riconoscimenti. L’ultimo è arrivato proprio ieri, al termine della visita in Germania dove Zelensky ha continuato il suo giro cominciato a Roma: ad Aquisgrana, alla presenza delle massime autorità di Bruxelles e del cancelliere tedesco Olaf Scholz gli è stato solennemente conferito il premio Carlo Magno, dedicato alle personalità che hanno acquisito particolari meriti nella promozione dell’integrazione europea. Come se la coraggiosa resistenza del popolo ucraino capitanata dal suo presidente costituisse di per sé un contributo alla costruzione dell’Europa. La simpatia e anche l’appoggio politico alla resistenza ucraina e la riprovazione nei confronti dell’avventura militare di Putin si sono improvvidamente trasformate in questo scivolamento di senso d’una forzatura dal sapore fortemente propagandistico. Tanto più che lo stesso Zelensky quando ha ringraziato commosso per l’onore ricevuto aveva da poche ore insistito per l’ennesima volta, e per l’ennesima volta invano, con il cancelliere Scholz per ricevere, oltre che altri carri armati Leopard in un nuovo pacchetto di robuste forniture militari, anche i famosi caccia F16 che va inseguendo fin dai primi giorni dell’invasione russa.

Insomma, ad Aquisgrana è andata in scena una nuova manifestazione di quella certa leggerezza con cui gli attuali dirigenti dell’Unione, a cominciare dalla presidente della Commissione Ursula von der Leyen, sorvolano sulle “deviazione di Visegrád” cui accennavamo sopra e alle quali lo spirito della richiesta di Kiev per un ingresso immediato nell’Unione sembra perfettamente consonante. La linea della Commissione UE si è piegata alle istanze nazionalistiche suscitate dal soprassalto di imperialismo russo fino al “perdono” concesso ai polacchi che prima della sciagurata guerra di Putin erano sotto sanzioni europee per le mancanze in fatto di stato di diritto e in aperta lotta sulla questione del primato del diritto nazionale. Sul fatto che Meloni sia allineata con questa impostazione “revisionista” della politica europea non c’era alcun dubbio anche prima che Zelensky venisse a Roma. Resta da vedere se l’entusiasmo esibito per una “rapidissima conclusione del processo di avvicinamento dell’Ucraina all’Unione europea” non renderà ancor più grave l’isolamento dell’Italia rispetto ai grandi paesi co-fondatori del progetto europeo che – nonostante le risposte positive che Zelensky continua a ricevere anche a Berlino e Parigi sulle sue richieste di armi – sono molto più prudenti e, soprattutto, realisti.

I rapporti con la NATO

Simile, ma non completamente identico, l’appoggio che Meloni offre a Kiev sull’altro grande capitolo internazionale: i rapporti con la NATO. Alcuni osservatori credono di aver colto nelle parole della presidente del Consiglio una certa ritrosia ad appoggiare l’ipotesi di un sostanzioso se non definitivo passo avanti verso l’adesione dell’Ucraina all’Alleanza atlantica nel prossimo vertice in programma a luglio a Vilnius che sarà il primo aperto al leader di un paese extra-alleanza, Zelensky per l’appunto.

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Joe Biden, con il segretari di stato Antony Blinken e della difesa Lloyd Austin

Non sappiamo se si tratti di un’impressione giusta. Se lo è, contraddice alquanto sostanza e tenore di passate esternazioni di Meloni, che è stata sempre molto schierata sull’allargamento della NATO ad est. La prudenza, ammesso che ci sia, potrebbe essere spiegata con la necessità di non staccarsi troppo dalla posizione americana, che in questa fase, almeno per quanto riguarda il Dipartimento di Stato, non sarebbe affatto favorevole a una forzatura a Vilnius, consapevole della necessità di non stressare oltre misura il contenzioso con Mosca e probabilmente memore dei problemi creati quindici anni fa in un memorabile summit NATO a Bucarest dal tentativo del presidente Bush di scavalcare gli alleati (allora francesi, tedeschi e anche italiani) imponendo l’adesione in tempi brevi di Ucraina e Georgia. Mossa avventata cui seguì, tra l’altro, una prima avventura militare di Vladimir Putin, allora ai danni della Georgia.

Non c’è dubbio che in merito al modo e ai tempi in cui Kiev dovrà essere ammessa nel club militare occidentale esistono all’interno della NATO posizioni alquanto divergenti. Fino a quella radicale di chi, per dirla con un brillante commentatore di politica estera italiano, ritiene che in fondo non sia affatto necessario portare l’Ucraina dentro la NATO perché è la NATO ad essere già ora “dentro l’Ucraina”, con sistemi d’arma, intelligence, istruttori e consulenze di ogni tipo.

Si tratta dell’ennesima dimostrazione dell’esistenza di spaccature profonde dietro l’apparente unanimità degli alleati occidentali. L’incertezza sugli obiettivi strategici della NATO si arricchisce ogni giorno di nuovi dubbi, ultimi quelli sollevati dalle rivelazioni della stampa americana su un (presunto) piano di Zelensky che prevedrebbe l’occupazione militare di località all’interno della federazione e l’utilizzo dei nuovi missili a medio-lungo raggio forniti dalla Gran Bretagna per colpire obiettivi in profondità nel territorio russo.